UNCTAD - World Investment Report 2015, “Reforming International Investment Governance” (WIR 2015)

UNCTAD - World Investment Report 2015, “Reforming International Investment Governance” (WIR 2015)

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Secondo l'UNCTAD servono nuove regole per gli investimenti esteri e una reale tassazione dei profitti delle multinazionali

Il Rapporto Mondiale sugli Investimenti 2015 dell’UNCTAD, la Conferenza Onu sul Commercio e lo Sviluppo, rileva il crollo dei flussi di Investimenti Diretti Esteri in Italia (IDE, FDI nell'acronimo inglese), più che dimezzati nel 2014 rispetto all’anno precedente.

L’anno scorso, infatti, i flussi di investimento in entrata in Italia sono stati pari a 11,451 miliardi di dollari (USD), meno della metà dei 25 miliardi di dollari attratti nel 2013.

Il dato italiano si colloca all'interno e amplifica la tendenza degli IDE globali, crollati del 16% nel 2014, con un ammontare totale di 1.023 miliardi di USD.

Il crollo può essere spiegato con la fragilità dell’economia globale, con l’incertezza delle politiche per gli investitori e con i notevoli rischi geopolitici. Infatti, il rapporto rileva come nuovi investimenti siano stati controbilanciati anche da alcuni grandi disinvestimenti, soprattutto tra paesi sviluppati.

Il rapporto, come ogni anno, si muove su due piani, da un lato descrittivo, fornendo una panoramica esaustiva sui trend e i flussi di Investimenti Diretti Esteri e un monitoraggio delle iniziative legislative intraprese, e, dall’altro tematico, fornendo suggerimenti di policy e focalizzando quest’anno l’attenzione proprio sul tema della “Riforma della governance degli investimenti internazionali”, evidenziando come gli Accordi Internazionali sugli Investimenti (IIAs, nell'acronimo inglese, BITs nel caso di accordi bilaterali) possono limitare eccessivamente, a volte in maniera non consapevole, lo spazio normativo delle parti contraenti, cioè di Stati e Governi, mettendo a rischio lo stesso raggiungimento degli obiettivi di politica pubblica e di sviluppo.

Riformare i trattati sugli investimenti

“La necessità di una riforma è evidente da molti anni, o addirittura da decenni - ha dichiarato esplicitamente Mukhisa Kituyi, Segretario Generale di UNCTAD in occasione della pubblicazione dell’edizione 2015 del World Investment Report - i vari Paesi hanno scelto di stringere questi accordi per ottime ragioni, per attrarre gli indispensabili investimenti grazie ad una migliore prevedibilità giuridica e ad una miglior tutela dei diritti di proprietà degli investitori. Allo stesso tempo, oggi ci troviamo ad affrontare un mosaico mondiale di accordi. Questi accordi hanno anche avuto un gran numero di conseguenze impreviste e a volte di grande portata per il diritto di regolamentazione, tanto per i Paesi sviluppati quanto per quelli in via di sviluppo. Gli accordi internazionali “di vecchio stile” sugli investimenti sono oramai giunti ad un punto morto. Una riforma renderebbe la rete globale di accordi internazionali sugli investimenti (IIAs) più atta a soddisfare le esigenze e le realtà di oggi e di domani”.

All'interno degli accordi e dei capitoli sulla “protezione” degli investimenti, è in particolare il meccanismo per la composizione delle vertenze, la cosidetta clausola ISDS (Investor to State Dispute Settlement) a risentire di una crescente crisi di legittimità, come è evidente nel dibattito europeo sulla sua inclusione nel TTIP, in corso di negoziato tra Commissione Europea e Amministrazione Obama.

La stessa UNCTAD, nell’ultimo aggiornamento dello scorso mese di maggio sui dati relativi ai ricorsi ISDS da parte degli investitori privati, ha segnalato come, nel 2014, siano stati 42 i casi registrati che portano il numero totale dei ricorsi a 608.

A pag. 112 del rapporto, nella rilevazione dei casi ISDS riportati per il 2014, troviamo la notizia che il Governo italiano è stato chiamato in causa per la prima volta. Mentre non risulta una comunicazione pubblica da parte delle autorità italiane, da alcune fontii si evince che il caso è stato sollevato da una azienda francese per la decisione di porre fine ad alcuni strumenti di incentivazione delle energie rinnovabili. Si tratterebbe, quindi, di un caso legato alla presunta violazione dell'Energy Charter Treaty, da cui l'Italia ha annunciato qualche mese fa, improvvisamente, di volersi ritirare.

Il rapporto UNCTAD, peraltro, rileva come, nell'ambito di trattati plurilaterali, i ricorsi ISDS legati all'Energy Charter Treaty, con i 10 casi presentati nel 2014, abbiano raggiunto la quota totale di 60 ricorsi, superando il numero dei ricorsi presentati nell'ambito del NAFTA (53), l'accordo di libero scambio tra Usa, Canada e Messico, firmato nel 1994.

Nel rapporto UNCTAD si sottolinea come i vari Paesi potrebbero utilizzare gli accordi in maniera più efficiente, come strumenti per l’effettiva promozione e agevolazione degli investimenti, ed identificare le responsabilità da attribuire agli investitori in cambio della protezione che tali accordi forniscono loro.

Il rapporto individua, in particolare, cinque aree in cui sarebbe necessario intervenire per una significativa riforma delle attuali politiche sugli investimenti esteri: la salvaguardia del diritto degli Stati a legiferare nel pubblico interesse, limitando le “protezioni” per gli investitori e chiarendo le clausole come “trattamento di nazione maggiormente favorita”, “equo trattamento”, “esproprio indiretto”, rimedi e compensazioni, e stabilendo esclusioni per le politiche pubbliche e la sicurezza nazionale; la riforma dei meccanismi ISDS – in evidente crisi di legittimità – creando una corte internazionale, o ricorrendo alla giurisdizione interna o ad un meccanismo di dispute Stato-Stato; la promozione degli investimenti attraverso accordi regionali; misure che assicurino “investimenti responsabili”, come clausole che vietino l'abbassamento degli standards e richiedano la piena adesione degli investitori alle norme internazionali e alla legislazione interna; rafforzare la coerenza sistemica degli accordi sugli investimenti esteri, garantendo, da un lato, la coerenza con le altre norme internazionali e, dall'altro, con le politiche interne liberamente determinate.

Il WIR 2015 registra un ulteriore incremento nel 2014 degli IIAs conclusi (+31), che raggiungono così la cifra totale di 3.271 trattati di regolamentazione degli investimenti nel mondo.

Allo stesso tempo monta il dibattito sulla necessità di avviare riforme significative di questi accordi e, tra il 2014 e i primi mesi del 2015 , sono stati 50 i paesi e 4 le organizzazioni regionali che hanno rivisto o stanno rivedendo i loro modelli di accordi sugli investimenti.

La stessa Commissione Europea, dopo la consultazione pubblica sulla clausola ISDS nel TTIP in corso di negoziato con gli Stati Uniti, ha presentato, nel maggio scorso, un documento di indicazioni sulla “riforma” dei trattati sugli investimenti e sul meccanismo della risoluzione delle dispute tra investitori e Stati, in particolare.

Ma, più o meno nello stesso periodo, altri documenti con proposte di “riforma” sono venuti dal governo tedesco e da quello norvegese. Fuori dall'area europea e dei paesi sviluppati, Brasile, India e Indonesia hanno avanzato proposte di revisione dei propri modelli di trattati sugli investimenti bilaterali.

L'Indonesia ha anche confermato la sua politica di disdetta dei Trattati Bilaterali sugli Investimenti, ponendo fine a 18 dei 64 BIT firmati (incluso quello con l'Italia), così come il Sud Africa si è ritirato dai BIT firmati con Austria, Danimarca e Germania.

L'UNCTAD registra, inoltre, che, nel 2014, 37 paesi hanno adottato un totale di 63 provvedimenti di regolamentazione degli investimenti esteri, tra cui 47 misure di liberalizzazione (pari all'84% delle misure prese) e 9 di restrizione/regolamentazione, legate principalmente ad aspetti connessi alla salute pubblica e alla sicurezza nazionale, rovesciando un trend che, negli ultimi anni, aveva visto un progressivo declino delle liberalizzazioni (nel 2013 rappresentavano il 73% delle misure prese dagli Stati).

Un'equa tassazione delle imprese multinazionali

La seconda importante questione sollevata dal WIR 2015 è invece quella legata al fenomeno dell’elusione fiscale da parte delle imprese multinazionali.

Kituyi, segretario generale UNCTAD, ha ribadito come: “La priorità politica è quella di agire contro l’elusione fiscale, per sostenere la mobilitazione delle risorse interne e per continuare ad agevolare gli investimenti produttivi per uno sviluppo sostenibile”.

Nel rapporto si suggeriscono alcuni metodi per affrontare il problema con politiche “sinergiche”, specialmente alla luce del finanziamento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs, nell'acronimo inglese) per il periodo 2016–2030, che verranno fissati a settembre dalle Nazioni Unite.

Secondo l'UNCTAD, insomma, serve una coerenza maggiore tra la fiscalità internazionale e le politiche di investimento.

Il rapporto sottolinea come questo si situi nell'ambito dell’espansione all’estero delle multinazionali delle economie in via di sviluppo, che è arrivata ad un livello mai raggiunto prima, a circa 500 miliardi di dollari.

Più in generale, nel mercato dei capitali e nell'azione delle imprese, si assiste ad una ripresa nelle fusioni ed acquisizioni transnazionali, che ha registrato il numero più alto di operazioni commerciali su larga scala (superiori a un miliardo di dollari) dal 2008, dalle 168 del 2013 alle 223 del 2014.

Il rapporto, che osserva l’attività commerciale internazionale in un gran numero di zone, ha rilevato che la produzione internazionale da parte delle multinazionali è aumentata nel 2014. Le vendite ed i cespiti all’estero delle multinazionali sono aumentati più rapidamente delle loro controparti nazionali, producendo un valore aggiunto di circa 7.900 miliardi di dollari.

Le società straniere affiliate alle multinazionali hanno dato impiego ad un totale di 75 milioni di persone, creando quattro milioni di posti di lavoro in tutto il mondo durante lo scorso anno.

L’UNCTAD valuta il contributo da parte delle consociate estere delle aziende multinazionali ai bilanci governativi nei Paesi in via di sviluppo in circa 730 miliardi di dollari all’anno ovvero circa il 23% della tassazione totale delle imprese ed il 10% delle entrate governative.

Questo dato è superiore nei Paesi in via di sviluppo rispetto ai Paesi sviluppati, evidenziando l’esposizione e la dipendenza dei Paesi in via di sviluppo dalle tasse delle multinazionali e delle loro filiali.

Il problema è che la pianificazione fiscale degli investitori ha contribuito ad accrescere il ruolo dei poli offshore negli investimenti globali delle imprese e le multinazionali possono contare su una vasta gamma di leve per l’elusione fiscale, servendosi nella maggior parte dei casi di strutture di investimento che coinvolgono entità a fini speciali, o appunto società veicolo, nei poli offshore di investimento. Il rapporto rileva che circa il 30% degli investimenti esteri delle multinazionali è veicolato attraverso poli finanziari offshore prima di raggiungere le destinazioni produttive nei paesi in via di sviluppo.

L'UNCTAD fa notare come i profitti che vengono istradati fuori dai Paesi in via di sviluppo possano avere un notevole impatto negativo sulle loro prospettive di sviluppo sostenibile essendo nella maggioranza dei casi meno equipaggiati per affrontare pratiche assai complesse di elusione fiscale, a causa della mancanza di competenze tecniche e risorse.

La perdita di gettito fiscale legato agli investimenti in entrata direttamente connessi ai poli offshore è valutata in un totale di almeno 100 miliardi di USD l’anno e si dimostra come esiste un chiaro rapporto tra la quota di investimenti dai poli offshore negli IDE in entrata nei Paesi ospitanti e la quota dichiarata (tassabile) di utili sugli investimenti esteri diretti: maggiore è la quantità di investimenti istradati tramite poli offshore, più viene ridotto l’ammontare dei profitti tassabili e mediamente nelle economie in via di sviluppo, ogni 10 punti percentuali di investimenti offshore, si ha un punto percentuale in meno di tasso di entrate.

In questo ambito, l'UNCTAD propone una maggiore attenzione alle politiche di investimenti nei progetti in corso per limitare l'elusione e l'evasione fiscale delle imprese transnazionali, come il progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) dell'OCSE, sotenuto anche dai governi del G20.

Per questo il rapporto propone un insieme di linee guida per una coerenza tra le politiche di investimento estero e di tassazione a livello internazionale. Si tratta di rimuovere quelle misure che consentono di fare della programmazione fiscale una leva di promozione degli investimenti; di considerare l'impatto potenziale sugli investimenti di politiche fiscali antievasione; di costruire un approccio di partnernariato e di comune responsabilità tra i paesi ospiti, di provenienza e di transito dei capitali; di gestire l'interazione tra gli accordi internazionali sulla tassazione e sugli investimenti; di rafforzare il ruolo sia degli investimenti esteri che delle entrate fiscali nelle politiche di sviluppo sostenibile e nella costruzione delle capacità per i paesi in via di sviluppo di combattere l'evasione fiscale.

Investimenti: la Cina fa la parte del leone ...

Per quanto riguarda i flussi di investimento, il rapporto rileva che, nel 2014, la Cina è divenuta il principale destinatario degli IDE, seguita da Hong Kong (Cina) e dagli Stati Uniti d’America.

Le economie in via di sviluppo, come gruppo, hanno attratto IDE per un valore di 681 miliardi di dollari, il più alto livello mai raggiunto, e restano i principali paesi per la quota di afflusso di investimenti globali.

Tra i primi 10 destinatari di IDE al mondo, la metà sono economie in via di sviluppo - Brasile, Cina, Hong Kong (Cina), India e Singapore.

Ma, allo stesso tempo, nel 2014, economie in via di sviluppo o economie di transizione costituiscono 9 dei 20 principali Paesi investitori - Cile, Cina, Hong Kong (Cina), Taiwan, Kuwait, Malesia, Repubblica di Corea, Federazione Russa e Singapore - con capitali investiti all’estero provenienti dai Paesi asiatici in via di sviluppo più che da qualsiasi altra regione.

Secondo il rapporto, le economie in via di sviluppo rappresentavano il 35% del flusso globale in uscita degli IDE, rispetto al 13% registrato nel 2007; un dato da record.

Una caratteristica della loro espansione globale è l’investimento in altre economie in via di sviluppo. L’ammontare degli IDE dalle economie in via di sviluppo ad altre economie in via di sviluppo (IDE Sud-Sud), fatta eccezione per i centri finanziari offshore situati nel Caraibi, era aumentata di due terzi, dai 1.700 miliardi di dollari del 2009 ai 2.900 miliardi di dollari del 2013.

Per quanto riguarda le prospettive, il rapporto prevede una ripresa duratura negli IDE globali, con una crescita prevista pari all’11%, fino a 1.400 miliardi di dollari, nel 2015 e ulteriori incrementi nel 2016, fino a 1.500 miliardi di dollari, e nel 2017, fino a 1.700 miliardi di dollari.

I paesi sviluppati dovrebbero registrare un notevole incremento dei flussi nel 2015 (in ascesa di oltre il 20%), come riflesso di un’attività economica più forte, mentre i flussi di IDE verso i paesi in via di sviluppo continueranno ad essere sostanziosi, aumentando in media del 3% nei prossimi due anni.

Naturalmente tutto potrebbe venire ribaltato da un grande numero di scenari economici e politici, tra cui le continue insicurezze nell’Eurozona, i potenziali effetti collaterali delle tensioni geopolitiche e le persistenti fragilità nelle economie emergenti.


Gli investimenti in Italia e nei paesi sviluppati

La quota degli investimenti diretti esteri nella formazione del capitale fisso in Italia è scesa dal 6,7% del 2013 al 3,2% del 2014. In forte calo anche i flussi di investimenti diretti all’estero in uscita, che scendono a 23,451 miliardi di dollari dai 30,759 miliardi dell’anno precedente.

Secondo il rapporto, tra 2013 e 2014 lo stock di investimenti è invece salito da 361 miliardi di dollari a 373 miliardi di dollari per gli IDE in entrata (una cifra pari al 17,4% del Pil) e da 521 a 548,5 miliardi di dollari (25,5% del Pil) per quelli in uscita.

In un’Unione Europea che ha visto gli IDE in entrata scendere da 333 a 258 miliardi di dollari dal 2013 al 2014, spicca in netta controtendenza il Regno Unito, che l’anno scorso ha attratto investimenti per 72 miliardi di dollari dai 48 del 2013.

Ancora peggiore di quella dell’Italia è la performance della Francia, dove i flussi di investimenti esteri in entrata hanno subito un crollo ancora più marcato: da 43 miliardi di dollari nel 2013 si è scesi a 15 miliardi.

Con 499 miliardi di dollari, lo scorso anno le economie in via di sviluppo, nel loro complesso, hanno registrato una flessione del 28% negli afflussi.

Tuttavia, questo dato è stato influenzato in maniera significativa dal singolo mega disinvestimento effettuato da Vodafone (Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord) nella sua azienda Verizon Wireless con sede negli Stati Uniti.

La scelta di Vodafone risultava indicativa della tendenza generale delle attività di fusione ed acquisizione, che hanno visto le operazioni commerciali di disinvestimento aumentare fino ad una su due delle operazioni di fusione ed acquisizione.


 Si vedano ai seguenti link:

http://stop-ttip-italia.net/2015/06/24/confermato-prima-causa-isds-contr...

http://www.rinnovabili.it/energia/isds-italia-tagli-fotovoltaico-333/