Pietro Ingrao, l’emancipazione integrale e la dimensione dell’alterità
Segnaliamo l'articolo scritto da Mattia Gambiloghi dell'area storia e memoria della FDV, scritto insieme a David Tozzi (giornalista e politologo) dal titolo: "Pietro Ingrao, l’emancipazione integrale e la dimensione dell’alterità", pubblicato originariamente su Micromega.it, QUI.
L'articolo presenta il convegno che si svolgerà al Senato a dieci anni dalla morte dello storico dirigente politico.
Il convegno, dal titolo "Pietro Ingrao: Scavando nella polvere", si svolgerà il giorno 3 ottobre. Tra i relatori, anche Mattia Gambilonghi della FDV.
Pietro Ingrao, l’emancipazione integrale e la dimensione dell’alterità
Un convegno in Senato a dieci anni dalla scomparsa ricorda il comunista che inseguiva la luna per pensare il futuro.
I dieci anni dalla morte di Pietro Ingrao (e i 110 dalla nascita) sono occasione rotonda per riflettere sul suo lascito politico e intellettuale, entro la prospettiva odierna così come in proiezione futura.
Com’è noto, Ingrao è stato una tra le figure centrali della vicenda del Partito comunista italiano durante il dopoguerra e dell’Italia della Prima Repubblica. Non solo perché, da presidente della Camera, è stato il primo comunista ad occupare – dopo l’avvio della Guerra fredda – un ruolo di garanzia centrale per un sistema parlamentare; ma anche perché la sua immagine è legata a quelli che potremmo definire dei veri e propri “pensieri lunghi”, termine già usato per Enrico Berlinguer. Più in particolare, e pur livellando, Ingrao ha rappresentato, incarnato e guidato l’“ala sinistra” del partito. La sua attività s’è contraddistinta per riflessioni tali da andare oltre l’immediata contingenza e la politique politicienne, e finalizzate a sviscerare e problematizzare i grandi nodi della strategia della sinistra, della sua progettualità, delle sue finalità.
In un vero e proprio corpo a corpo teorico con le concretizzazioni dei vari socialismi realizzati (sia quelli legati al blocco sovietico e alla rottura dell’Ottobre 1917, sia quelli occidentali, di segno riformistico), assillo costante di Ingrao è l’individuazione dei meccanismi sociali e istituzionali in grado di produrre una vera e integrale emancipazione dell’individuo, da tutte le diverse forme di oppressione e alienazione, non sol quella – pur fondamentale – legata al conflitto tra capitale e lavoro. Quest’attenzione nei confronti della “multidimensionalità” delle dinamiche dell’emancipazione differenzia Ingrao da molti altri dirigenti comunisti, italiani e non, fermi a una visione tutta economicistica o, comunque, non in grado di confrontarsi a fondo con il tornante post-materialistico e post-acquisitivo rappresentato dagli anni Settanta. Sta forse in questo assillo e in questa ricerca costante e incompiuta sulle forme emancipatorie il senso più profondo di quel “volere la luna” con cui Ingrao ha voluto intitolare la propria autobiografia e noi riferire con il convegno che si terrà il 3 ottobre al Senato. E che lo ha condotto – una volta venute meno o crollate certezze, modelli sociali e punti di riferimento statuali – a suggerire al corpo del suo partito di “mantenere aperto l’orizzonte del comunismo”, inteso non come ritirata strategico-nostalgica, un barricarsi nella torre, bensì come slancio a spalancarne le porte, come direttrice di ricerca rivolta al fuori e all’avvenire slegata dalle soluzioni – dimostratesi tragicamente insufficienti – individuate e sperimentate nel Novecento per dare forma a questo ideale di uguaglianza radicale. Nonostante, infatti, il celebre editoriale di commento all’invasione dell’Ungheria, significativamente intitolato Da un parte della barricata (ovvero quella del paese-guida e delle decisioni assunte per difendere l’integrità del blocco socialista e del movimento rivoluzionario mondiale), Ingrao – come e forse più di altri dirigenti – negli anni successivi maturerà nei confronti dell’Urss un atteggiamento diverso e slegato da solidarietà “campiste”, esibendo una concezione della democrazia e del suo ruolo nella costruzione del socialismo tutt’altro che tattica o strumentale. Significativo, in tal senso, il giudizio che esprime rispetto alla Primavera di Praga: sottolineando il necessario legame tra approfondimento della democrazia e una politica egemonica di larghe alleanze sociali, Ingrao afferma che l’espansione della democrazia è “intrinseca al socialismo per cui ci battiamo”. Non può dunque essere considerata come una “concessione” di comodo finalizzata a neutralizzare gli argomenti avversari, essendo al contrario una “necessità” organica al progetto dei comunisti italiani, indispensabile per “raggiungere un traguardo socialista che sia sostanziale e non formale”. Se la costruzione del socialismo non comporta un salto di qualità della forma politica, essa non può rappresentare un “superamento reale dello sfruttamento, dell’alienazione, dello spreco e mortificazione di energie” della classe lavoratrice.
Un’ispirazione di fondo che sviluppa e radicalizza l’elaborazione togliattiana sulla “via italiana”, e che verrà ulteriormente sistematizzata da Ingrao in occasione del dibattito aperto da Norberto Bobbio nel 1976 sulle colonne di Mondoperaio. Quell’anno, la rivista del Psi aveva infatti dato spazio a un ragionamento del politologo liberalsocialista che – muovendo da una riflessione sui “vuoti” e sulle aporie del filosofo di Treviri e della tradizione marxista successiva intorno all’analisi dello Stato e ai precetti a cui attenersi per la costruzione di una democrazia socialista – aveva come principale obiettivo mettere in discussione la democraticità del Pci, proteso in quella fase verso lo storico ingresso nell’area di governo. A un approccio verso i sistemi politici tale da privilegiare forme e procedure, e quindi tale da obbligare la sinistra dentro l’angusta (oltre che schematica) alternativa tra liberalismo e totalitarismo staliniano, Ingrao contrappone l’immagine di una “democrazia di massa” che rappresenta al tempo stesso lo strumento e la “piattaforma” su cui far poggiare il processo di transizione al socialismo proprio del Pci, da un lato, ma altresì, dall’altro, la prosecuzione evolutiva di quell’originale forma democratica disegnata dalla Costituzione italiana (non estranea, come sappiamo, al contributo teorico del comunismo italiano). Ciò che Ingrao afferma in quell’occasione è l’esigenza di non “disunire”, ponendole per di più in antitesi, la dimensione progettuale entro cui si disegna lo scheletro istituzionale focalizzandosi sulle sue articolazioni e sui suoi equilibri interni, e la necessaria immersione dell’organizzazione democratica nella materialità della Storia e dei rapporti sociali che la attraversano. Il paradigma democratico che emerge dalle righe di Ingrao e dai documenti del Pci esprime dunque una democrazia che si vuole (in quanto “socialista”) sostanziale perché innervata nei gangli e nei luoghi del processo produttivo, riallacciandosi in tal modo al cuore pulsante della tradizione de L’Ordine Nuovo. Ovvero: l’unità dialettica tra processo produttivo e forma politica.
Sulla scorta del Marx della Questione ebraica, la critica che Ingrao indirizza all’articolo di Bobbio punta il dito contro il fatto che egli riesca a “parificare padrone e operaio nelle procedure” solo perché sceglie di ignorare la “loro collocazione nel meccanismo produttivo”, unificando le due figure nella astratta categoria del cittadino. Laddove, al contrario, a essere lampante è la distorsione e la “corruzione” dei processi decisionali generata da quei “poteri privati” tesi a monopolizzare le “grandi decisioni economiche” e, conseguentemente, a prosciugare internamente la democrazia rappresentativa e i suoi attributi. Se si vuole davvero che la democrazia sprigioni pienamente quella carica “sovversiva” evocata dallo stesso Bobbio, a dover essere valorizzati fino in fondo sono per Ingrao quegli elementi che, in potenza, qualora dispiegati si mostrerebbero confliggenti con la ratio gerarchica e privatistica “insit[a] nel meccanismo capitalistico”. La democrazia si difende e sviluppa solo se si risolve positivamente quell’“incompiutezza” legata alle dinamiche produttive, abbattendo lo steccato tra politica ed economia, espandendo la democrazia rappresentativa oltre la topografia disegnata dal liberalismo. Per Ingrao non basta, come teorizzato e praticato dalla tradizione liberale, combattere il dispotismo politico e mostrarsi invece benevoli o indifferenti, tutto sommato proni, verso il dispotismo economico (operante sia nella fabbrica che nella società): precludendo l’organizzazione economica della società all’attività partecipativa dei singoli, il risultato sarebbe infatti la mutilazione delle più complessive dinamiche partecipative rispetto all’organizzazione politica dello Stato.
Agli istituti della “democrazia dei produttori” viene quindi attribuita non una valenza settoriale e corporativa, di arretramento rispetto all’uguagliamento formale realizzato con la rappresentanza parlamentare, quanto piuttosto la capacità di approfondire la dimensione rappresentativa sostanziandola e concretizzandola. Grazie a questo intreccio virtuoso di parlamentarismo, forme di “democrazia di base” e ruolo pivotale dei partiti di massa – concepiti come luogo di sintesi delle domande sociali altrimenti particolaristiche ed egoistiche – la “democrazia di massa” teorizzata da Ingrao può effettivamente porsi come una “terza via” alternativa, tanto al liberalismo tradizionale quanto alle deviazioni autoritarie e monopartitiche del socialismo realizzato.
È questa rifondazione della democrazia, del resto, la base su cui poggia la stessa idea della centralità del parlamento e di quella “rete delle assemblee elettive” che rappresenterà – sul piano istituzionale – la base su cui fare poggiare quell’ipotesi di grande coalizione antifascista che è stato il tentativo di “nuovo compromesso storico” tra Pci, Dc e Psi. Qualche anno più tardi (a cavallo, cioè, dello “strappo” con l’Urss e del lancio di un “nuovo internazionalismo” estraneo alla logica gerarchica del paese-guida), questa riflessione intorno alla “terza via” perseguita dal Pci quale ipotesi autonoma e originale di socialismo si arricchirà, grazie alla piena metabolizzazione da parte di Ingrao delle questioni connesse al tornante post-materialistico. Ai suoi occhi, per specificarsi ulteriormente, l’idea di terza via deve saper affrontare la questione dei “nuovi beni” da conquistare, interiorizzando la consapevolezza di dover superare la dimensione quantitativa e produttivistica della crescita. Contribuendo a determinare un “arco di fini” ben più ampio rispetto al passato, i nuovi valori possono contribuire ad allargare “la scala di valori che il socialismo punta ad affermare”. Entro quest’ottica, una prospettiva di “nuovo socialismo” è chiamata a concentrarsi sulle diverse facce di uno sviluppo qualitativo: qualità e senso del lavoro, intesi come controllo operaio delle finalità del processo produttivo; una politica estera orientata alla pace e alle precondizioni della vita umana; una politica ambientale con una visione globale e onnicomprensiva delle “implicazioni” derivanti da “determinate forme dello sviluppo”; un’attenzione forte alla dialettica tra dimensione collettiva e prospettiva individuale dei processi di emancipazione, tale da evitare le speculari degenerazioni o in omologazione collettivistica, o nell’esaltazione del “privilegio proprietario”; infine, uno sguardo sul nodo dell’uguaglianza capace di cogliere e di rapportarsi in maniera non conflittuale alla questione della “diversità”, innanzitutto sessuale, concependola “non come fatto cristallizzato”, ma invece vedendola come soggettività che aspira a comunicare, a parlare, ad arricchire e arricchirsi come “soggettività che aspira a […] un sistema più largo e consapevole di relazioni”. Questioni centrali per il contributo che il Pci di Berlinguer e poi di Alessandro Natta tenterà di fornire al processo di rinnovamento di quella “sinistra europea” di cui si dichiarerà (con il XVII congresso del 1986) “parte integrante”: oltre, cioè, la tradizionale appartenenza a un movimento comunista internazionale in via di disgregazione.
Questo rinnovamento identitario e programmatico impone però il superamento delle impostazioni statalistiche, produttivistiche ed economicistiche. Le questioni appena chiamate in ballo necessitano infatti non solo della messa a fuoco delle nuove contraddizioni, ma della stessa ridefinizione delle gerarchie chiamate a ordinarle. La vivida percezione di questa necessità condurrà Ingrao, negli anni della sua direzione del Centro per la riforma dello Stato, a studiare a fondo i tentativi di autoriforma di alcune tra le più rilevanti esperienze della socialdemocrazia europea: in particolar modo, quella svedese, impegnata con il piano Meidner a definire forme non-statalistiche di socializzazione della proprietà e di governo del processo di accumulazione; e quella tedesca, che con la riformulazione del programma fondamentale della Spd (il progetto di Irsee) affronta il tema delle diverse dimensioni della crescita qualitativa.
Ricerche, entrambe, volte a porsi al di là dei limiti del compromesso fordista-keynesiano, e che, dunque, incrociavano la riflessione di un comunista come Ingrao, desideroso di contaminazioni e nuove sintesi, ma fermissimo nella volontà di confrontarsi con il nodo teorico e politico di una società post-capitalistica.
Ed è in questa tensione costante, tra la salvaguardia di un punto di vista conflittuale e antagonistico da un lato, e la navigazione in mare aperto dall’altro, che è possibile cogliere l’essenza più intima del suo invito – nell’ambito del congresso che segnerà lo scioglimento del Pci e la transizione verso il Partito democratico della sinistra, direzione assunta dal neo-segretario Achille Occhetto all’indomani della caduta del muro di Berlino – a mantenere aperto quell’“orizzonte del comunismo” verso cui Ingrao ha continuato a veleggiare fino alla fine della sua vita.
Una tensione duale che, proprio in quanto tale, costantemente incoraggiava dialogo e ingenerava dubbio, in Ingrao, non arrivando mai a fargli apporre un punto decisivo e dunque definitivo a una discussione per sua natura aperta, e volta naturalmente ad allargarsi, espandersi, non a ridursi e risolversi. L’interrogazione ingraiana è, in altri termini, strutturalmente, ideologicamente e idealmente (come in concreto) rivolta come detto a un oltre, in un continuum spazio-temporale, politico-posturale, di ricerca ininterrotta e ininterrompibile. Rifuggendo da assertività dogmatiche così come rinunciando a scorciatoie semplici quanto sterili di false verità assolute. Approcci e atteggiamenti questi che, in qualche circostanza del suo percorso politico, sono stati interpretati come indecisione o “non scelta”: lo sarebbero più che mai oggi, nell’epoca dell’evanescente istantaneo, dell’efficacia risolutiva (non importa se presunta), della soglia dell’attenzione di otto secondi e di quella del dolore (nel caso di Ingrao, dell’assillo, del rovello) ancor più bassa, tendente al nulla.
L’esperienza di Pietro Ingrao è tutta rivolta e aperta senza soluzione di continuità alle possibilità, come detto, dell’alterità, nella sua attenzione – di più: abbraccio – agli “altri mondi”: i giovani, i movimenti, i femminismi, le culture altre, la democrazia partecipativa. Per quanto concerne quest’ultima – intesa in senso ampio – in un ideale filo rosso con le battaglie di Umberto Terracini in Assemblea costituente, cui ci allacceremo nella stessa sala del convegno in dicembre in occasione dei 130 dalla nascita, a partire da istituti referendari e istituzione delle regioni, del “regionalismo” che Ingrao, grazie alla sua esperienza in Umbria, fu prodromico nel mettere ancor più e meglio a fuoco come granaio di consenso per il Pci così come e ancor più ossatura di un sistema-paese ancora e altrimenti monco. Apertura all’alterità dell’essere umano rispetto al mondo, vedasi la questione ecologica, il cui senso più profondo sta per Ingrao nel respingere la nozione di “uomo signore della natura”, e quindi rifiutare il dominio esclusivo del “produrre” e riconoscere altre presenze “non umane” da tutelare, essendo del tutto vitali alla coesistenza planetaria.
Infine, anche nei confronti di sé stesso, nel solco di quella messa in discussione, in dubbio e in dialogo, un Je est un autre, l’io è un altro rimbaudiano che pare a tratti riecheggiare nella densa produzione poetica di Pietro Ingrao, di cui non si sa bene dove collocare partenza, ma si sa per certo dove indicare arrivo e fine: da nessuna parte, o verso l’orizzonte e oltre.
Sempre opponendosi al veleggiare placidi verso l’abisso, Ingrao spesso tempestoso nei suoi convincimenti (più equilibrato ed elegante nel poi manifestarli nelle sedi competenti, composto anche nella fase di marginalizzazione pure estrema della sua figura); mai ignorando gli squali – o le balene bianche – sotto la chiglia, tantomeno proponendovi accordi.
Costantemente, insomma, in rivolta, contro l’accelerare e il tracimare travolgente del turboliberismo così come verso le rese a esso e i tradimenti di sé.
Spesso in direzione ostinata e contraria, sicuramente scomoda, sovente sconfitta.
Storica la sua opposizione alla svolta della Bolognina del 1991, per lui resa e rimessa del Pci allo sfondamento liberista dell’’89 che travolgeva il maggior partito comunista dell’Europa occidentale; partito che sceglieva, di farsi travolgere, non rilanciando ma rinunciando alla sua stessa ragione sociale.
Ingrao, reiterando il suo inestinguibile struggimento, e confermando “paradossalmente” la sua statura politica di dirigente comunista tutto d’un pezzo, scelse di proseguire il dialogo nel dubbio e di perseguire il diritto al dissenso, aderendo al nuovo partito, dove tuttavia, coerentemente con sé stesso, rimase come già ricordato solo sino al ’93.
Ricorda Luciana Castellina: “L’ingraismo non fu solo una battaglia per la democratizzazione del partito, il famoso diritto al dissenso. C’era molto di più: si è trattato del tentativo più serio del pensiero comunista di fare i conti con il capitalismo […] non per inseguire ‘mille rivoli rivendicativi’, ma per costruire un vero modello di sviluppo alternativo”.
Non certo una resa, dunque, quella di Ingrao, ma un preciso, radicale rifiuto di una resa.
E lo farà senza sosta, persino in seguito all’XI congresso del gennaio 1966, quello della contesa tra lui (promotore di un modello alternativo e globale, segnato da un diverso sistema di compatibilità e valori) e Amendola (partigiano di una linea pragmatica e minimalista, finalizzata alla razionalizzazione degli squilibri del capitalismo italiano): un dibattito durante il quale Ingrao aveva espresso senza infingimenti – tipici di un partito legato a ritualità dogmatiche e rigidità lascito della sub-cultura stalinista sedimentatasi – quella posizione che il partito non aveva saputo (né tantomeno voluto) indicare, insistendo per di più sulla necessità di una discussione ampia e alla luce del sole. Per l’appunto, la “pubblicità del dissenso”, fuori da ogni declinazione burocratica del centralismo democratico.
Ingrao venne dapprima lasciato solo sul posto, e in seguito messo ai margini del partito. I “suoi”, in larga misura estromessi, sbattuti fuori.
Eppure, paradossalmente, quella sconfitta “tombale” certificò l’esistenza, per quanto mal tollerata, della “possibilità del dissenso”. Del diritto al dubbio. Consentendo, così, da un lato di far compiere al comunismo italiano un passo in avanti rispetto a una certa ritualità di marchio staliniano, dall’altro un passo in avanti alla democrazia tutta (non solo quella partitica, non solo quella comunista). Di più: agendo entro quel congresso e partendo dunque dal livello organizzativo interno Ingrao faceva leva, in quello snodo di fase cruciale, sul livello politico ulteriore mettendo in discussione l’inevitabilità dello spettro di un “cedimento”, del Pci e di tutti i partiti comunisti euro-occidentali, rispetto al compromesso col capitalismo di Longo, Amendola e tutto il gruppo dirigente apicale del partito al tempo.
Diverse “possibilità di alterità” delle alternative di sinistra odierne, ben oltre l’Italia, hanno pezzi di radici in quel cimento di allora che – pur non volendo attribuirgli eccessivi meriti o patria potestà – ha consentito, o facilitato, non tanto o non soltanto la possibilità di alternativa nella nascita di soggettività successive come in Italia il Partito della Rifondazione Comunista, Sinistra Ecologia Libertà e Sinistra Italiana, ma anche diverse, diversamente articolate esperienze degli anni Dieci e Venti della New left come Syriza, Podemos e La France insoumise, fermo restando e ribadendo autonomia, originalità e specificità locale di ciascuno di questi movimenti e relativi processi.
Una lotta, quella di Ingrao, che negli ultimi agitati anni sembrava preannunciare, passando per un ostinato quanto sempre più ostico non arrendersi al post-ideologismo, un nuovo ingaggio trans-ideologico, agevolato Ingrao in questo dalla naturale inclinazione all’ibridazione coi mondi, all’intrecciarsi con le più irregolari istanze.
Mai, dunque, una resa, ma senz’altro una presa di coscienza di sconfitta, rispetto al capitale: un passaggio obbligato per poter pensare di far ripartire e riorganizzare la lotta, da lotta di classe (quella operaia) a quella di un più monadizzato ma non necessariamente, in prospettiva, meno pressante 99%. Un 99% agevolato o quantomeno incentivato ad alzare il livello dello scontro – l’oggetto del contendere e del confliggere – da un modello, quello capitalistico, patito e percepito come irriformabile, che mostra la corda non soltanto nelle pigre, private occasioni del ceto riflessivo passivo, bensì nella pancia-mondo, nella coscienza più vasta, di un’umanità – non più solo ad ovest: ovunque – che, la pancia, l’ha sempre più vuota, piena di risentimento, gravida di rivendicazione.
L’anticapitalismo non è più visto come il patetico spaventapasseri di una sinistra estremista e residuale che si mette in imbarazzo anche solo per aver proposto la possibilità di un’alternativa, per aver brontolato e tirato fuori una pretesa naïf e preistorica (o fuori dalla storia). La crescente consapevolezza globale, segnata dal crescente scarto tra il sofferto da un lato, il sostenibile e il sopportabile dall’altro, è un sempre più (e a sempre più voci) ineludibilmente avvertibile grido di esigenza di cambiamento delle regole del gioco. La disuguaglianza è divenuta, ormai da qualche tempo e sempre più, il tema cruciale del nuovo millennio, un tema così estremo che richiede un approccio radicale, da parte di nuovi attori radicali, in modi radicalmente nuovi, come ad esempio i prevedibilmente scherniti e scomunicati come populismi di sinistra, riflesso pavloviano di élite politiche tradizionali (vedasi, in Europa, le due eterne famiglie governiste-pur-senza-governare cristiano-popolare e social-democratica).
Eppure, i due binari paralleli su cui viaggia il grande tema diseguale del tempo, questione sociale e questione ambientale, possono ben essere veicolate da quell’espansione della democrazia intrinseca al socialismo invocato da Ingrao, che può oggi essere declinato come reinvenzione vitalista e vibrante, popolare e orizzontale dei sistemi democratici (rispetto alla minaccia di un’atrofizzazione algoritmica e proprietaria) che non può che auspicabilmente intrecciarsi con nuove (dopo la terza, a prosecuzione) vie al socialismo adatte ai tempi, adeguate alle sfide che Ingrao intuiva, quando non intravedeva.
L’occasione di compimento di un disegno altro è quando è riconosciuto, nel più profondo, il fallimento del modello morente. Ma a ben vedere, non è occasione di compimento, quanto di cominciamento, o meglio ancora: di continuazione. Riuscendo, o fallendo meglio: in ogni caso, continuando a provare.
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