L'innovatore permanente, Guglielmo Epifani

Bruno Trentin è stato un innovatore permanente, è stato un uomo che ha segnato molto anche la storia recente del sindacato. La Cgil di oggi affonda una parte delle sue radici nei cambiamenti dei primi anni Novanta, un periodo che segna la sua identità moderna, e Bruno Trentin è stato in questo un protagonista.

Ho avuto con lui i contatti più stretti quando divenne segretario generale ed io, con Sergio Cofferati e Alfiero Grandi, entrai in segreteria. Trentin non avrebbe voluto quell’incarico, il periodo era difficile, ma dopo Pizzinato era lui il sindacalista di maggior prestigio. Accettò per senso di responsabilità.
La sua lezione, la sua eredità sta soprattutto nell’aver rifondato l’identità della Cgil, di averla basata sul programma, non più sull’appartenenza per logiche di partito. Il congresso del 1991 segnò una trasformazione in parte epocale, non più una Cgil retta da un patto tra forze politiche, ma da un’identità programmatica. E con regole di democrazia formali e sostanziali che hanno consentito all’organizzazione di passare indenne attraverso tutte le trasformazioni politiche, partitiche e istituzionali dell’ultimo ventennio. Un contributo molto alto, a mio avviso.
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E poi l’identità della Cgil come sindacato dei diritti, collettivi e individuali, un messaggio culturale di grandissima modernità perché si superò il diritto specifico dell’appartenenza al lavoro, per considerare il diritto di cittadinanza. Fu una grande svolta culturale.
Infine i due accordi del 1992-1993 molto complessi, soprattutto il primo. Bruno Trentin lo firmò e si dimise perché non aveva ottemperato il mandato. Fu una fase molto drammatica della vita della Cgil, quella in cui Trentin fu più colpito. Ricordo il suo viaggio in Corsica, con le dimissioni, il travaglio di una scissione tra il mandato avuto e il senso di responsabilità: fece prevalere il senso di responsabilità. Di recente, quando trattando sulle pensioni Romano Prodi ha detto «o firma la Cgil o mi dimetto», ho pensato molto a Bruno Trentin, a quello che ha vissuto. Quando tornò dalla Corsica, ci fu un consiglio generale, era settembre, fu una riunione molto tesa, lo convincemmo a ritirare le dimissioni. Ero responsabile dell’organizzazione, poi fui il segretario aggiunto, quelle sue lacerazioni l’ho vissute da vicino.
Quello che non gli andò giù dell’accordo del ‘92 non fu il fatto che dovette accettarlo: lui voleva che si sospendessero gli effetti della contrattazione aziendale, non una moratoria di quella contrattazione. Trentin voleva salvare il principio secondo cui si poteva negoziare anche in quella fase drammatica. Poi gli effetti economici della contrattazione potevano slittare nel tempo. Questo passaggio chiave, fondato, rigoroso, non gli fu reso possibile. Ciò malgrado, lui firmò. Fece prevalere il senso di responsabilità su cui il presidente del Consiglio di allora, Giuliano Amato, lo aveva nei fatti sfidato.
Con l’accordo del 1993, invece, Bruno Trentin ridisegnò la politica dei redditi, della concertazione, della politica contrattuale: quel modello ha segnato, anche questo, l’ultimo ventennio della storia delle relazioni industriali. Lui, teorico dell’autonomia dei consigli dei delegati, capisce il valore della formalizzazione delle regole contrattuali e della politica di confronto. Il ‘93 rappresenta il culmine di questa stagione.
Non c’è dubbio che la sua storia, il suo lavoro, abbiamo lasciato un’impronta profonda nella storia recente della Cgil, non solo in quella “antica”, cioè quella degli anni Cinquanta quando lavorava all’Ufficio studi, oppure dell’Autunno caldo che lo vide alla guida dei metalmeccanici della Fiom: protagonista indiscusso sia dell’idea dell’unità dal basso del movimento sindacale, sia del rapporto tra operai e studenti, un rapporto sempre fortissimo. Bruno aveva un’attenzione speciale per i temi della cultura, della formazione.
Poi ho ricordi del suo essere. Il suo amore per il rigore, quasi calvinista nell’intransigenza, l’attaccamento al merito sopra ogni cosa. Molto determinato quando impostava le battaglie che riteneva fondamentali. Chiuso, apparentemente scontroso, freddo, glaciale, era però capace di grande ironia oltre che di grandi tormenti. E di sorridere sulle vicende del mondo, del sindacato, della politica.
Anche quando ha lasciato la Cgil, ha continuato a seguirne le vicende, con rispetto, ma seguiva tutto. Un attaccamento davvero forte. Infine ricordo anche le sue ultime riflessioni sul Partito Democratico, ne capiva l’importanza ma temeva le modalità di costruzione del processo.
Poi quest’anno di silenzio.
I funerali spero si facciano, come è giusto, nella sede della Cgil. Mi piacerebbe molto che la nostra scuola di Ariccia portasse il suo nome.
Guglielmo Epifani