Il lavoro nella giusta transizione, politiche di sviluppo e relazioni industriali per un lavoro di qualità
Le relazioni industriali e le condizioni del lavoro sono inevitabilmente connesse alla morfologia del nostro sistema produttivo e alla sua specializzazione: un tessuto composto prevalentemente da micro e piccole imprese orientato alla produzione di beni e servizi con scarso contenuto di sapere e tecnologia .
Questa tendenza tende ad accentuarsi già dall’inizio degli anni ‘90. Non è un caso che dalla fine degli anni 80 la curva degli investimenti in ricerca delle imprese cala progressivamente, e aumenta il nostro debito tecnologico: compriamo tecnologia in misura crescente. Di più, proprio i mancati investimenti degli anni passati a fronte di un aumento dei profitti, favoriti da una dinamica molto contenuta delle retribuzioni, hanno determinato il divario tra la produttività delle imprese italiane e quella dei nostri partner commerciali. Su questo ha pesato la dismissione progressiva dei laboratori di ricerca delle grandi aziende a partecipazione statale come esito del processo di dismissione dell’Iri e, naturalmente, gli scarsi investimenti pubblici in R&S. Ovviamente una competizione di costo piuttosto che su base tecnologica porta con sé conseguenze inevitabili sulle caratteristiche della forza lavoro oggi il fattore economicamente più conveniente.
Senza l’intervento diretto dello Stato è impossibile modificare la specializzazione produttiva, i bonus e gli incentivi alimentano solo la tendenza in atto. Avendo, in sostanza, fatto della competizione da costi la propria leva principale sui mercati internazionali, ciò che ne è scaturita è quell’angusta dinamica delle retribuzioni e della domanda interna, oggi scandalosamente sotto gli occhi di tutti. E da cui, sollecitati anche da una importante recente direttiva europea, sta crescendo nel paese una forte richiesta per ripensare il tema del salario minimo, nel quale la legge può offrire un supporto all’indispensabile ruolo della contrattazione collettiva, soprattutto se si riuscirà finalmente a dare attuazione all’articolo 39 della Costituzione.
Una menzione a parte meriterebbe il mercato del lavoro. La legislazione, che ha progressivamente legittimato l’uso della precarietà, ci consegna oggi una occupazione caratterizzata da discontinuità e sottoccupazione, due elementi che inevitabilmente incidono sulle retribuzioni e contribuiscono ad abbassare il salario medio annuale.
La crescita dei salari deve essere obiettivo strategico e non subordinato a perverse compatibilità esterne.
Dovremmo partire dalla riconversione ecologica basata sulla decarbonizzazione come strategia vincolante e inderogabile per una nuova politica dello sviluppo basata sulla sopravvivenza della vita umana.
Ma la storia non si fa con i se. Oggi serve una grande mobilitazione collettiva per affermare la priorità della crescita dei salari, del miglioramento delle condizioni di lavoro, del superamento della precarietà per ricordare a tutti che non esiste crescita infinita in un mondo finito. Quindi la transizione ecologica e un nuovo modello di produzione e consumo sono un obbligo non una semplice necessità. Venuta meno la leva svalutativa che aveva accompagnato le fasi di crescita del nostro paese avremmo già da tempo dovuto scegliere, senza dubbio alcuno, la via di una politica dello sviluppo basata su istruzione, scienza e tecnologia, assumendo l’ambiente come vincolo e fattore trainante. Oggi siamo consapevoli dell’urgenza di una transizione che per essere rapida deve essere giusta quindi socialmente sostenibile.