Eguaglianza, Riccardo Terzi

Sono stato recentemente, meno di due anni fa, con Bruno Trentin a Barcellona, per la presentazione di un libro in lingua catalana a lui dedicato, con una sua raccolta di scritti e con un saggio lucido e appassionato di un dirigente delle Comisiones Obreras, Josè Luis Lopez Bulla. È l’ultimo ricordo che io ho di Trentin, e l’episodio mi pare indicativo, perché lì ho potuto direttamente verificare il prestigio e la considerazione di cui egli godeva a livello internazionale, essendo un punto di riferimento molto importante non solo per il movimento sindacale, ma per tutta la cultura della sinistra europea.


Forse non ci rendiamo abbastanza conto, presi nelle nostre piccole dispute provinciali, del grande patrimonio che è rappresentato dalla storia del sindacalismo italiano, e della Cgil in primo luogo, e della straordinaria influenza che questa storia ha avuto sulla scena internazionale. Questa forza di attrazione discende anzitutto dal fatto che il sindacato italiano si è mosso in una dimensione non corporativa, con una forte ambizione politica e progettuale, e ha saputo esprimere, in questa prospettiva, un gruppo dirigente unico nel panorama mondiale per le sue eccezionali qualità intellettuali e culturali. Trentin, sotto questo profilo è la figura più emblematica, perché in lui si fondono in un rapporto assai stringente le qualità dell’intellettuale e del capo sindacale, dell’uomo di pensiero e dell’uomo di azione. Questa sintesi è tutt’altro che frequente, e sta diventando una merce rara, in un mondo popolato da teorici astratti e da pragmatisti senza pensiero, per cui sembra ormai che pensare ed agire siano due facoltà tra loro in un rapporto di opposizione. Ma è proprio questa scissione il dramma del nostro tempo: il sapere solo accademico da un lato, e dall’altro il cinismo di un potere fine a se stesso.


Trentin non si è mai rassegnato a questa separazione, ma ha sempre tentato, con una tenacia puntigliosa, di mettere tra loro in comunicazione questi due mondi, dell’agire e del pensare, di impedire la loro divaricazione, perché essa produce nello stesso tempo la sterilità del pensiero e l’irrilevanza dell’azione. Ma questo lavoro di unificazione, proprio per la forza materiale dei processi reali che spingono in tutt’altra direzione, è estremamente faticoso, contraddittorio, e deve essere ogni volta ripreso daccapo, rimettendo insieme i pezzi di una realtà sempre più frantumata.

Ricordo come più volte Trentin abbia denunciato, nella stessa prassi sindacale della Cgil, uno scarto tra il dire e il fare, tra le posizioni di principio affermate e la gestione di fatto delle politiche contrattuali, che finiva spesso per esser guidata solo dalle convenienze di alcuni segmenti del mondo del lavoro o da un calcolo contingente dei rapporti di forza. Penso, ad esempio, agli accordi che fissavano un duplice regime contrattuale, più vantaggioso per i vecchi assunti e meno vantaggioso per quelli futuri, dove si rompe la solidarietà di classe e c’è solo la difesa corporativa degli interessi meglio protetti e tutelati. Trentin si impegnò in una battaglia durissima contro tutte queste forme di corporativismo, ed è nel vivo di questo scontro che egli ha saputo offrire alla Cgil una nuova base teorica e culturale, ponendo al centro il tema della persona, dei suoi diritti, della sua autonomia, ponendo cioè il problema di una cittadinanza universale ed inclusiva, con pari diritti e pari doveri per tutti, e su questa base si apriva all’azione del sindacato un nuovo straordinario campo di iniziativa, verso i giovani, verso le figure più svantaggiate, verso i lavoratori immigrati.

Non fu affatto una battaglia agevole, senza resistenze, senza condizionamenti, e spesso è accaduto che la forza di inerzia degli interessi corporativi abbia avuto il sopravvento. I processi decisionali nella Cgil sono assai complessi, tortuosi e non sempre trasparenti, e anche quando Trentin assume l’incarico più prestigioso di Segretario generale, dopo una vicenda interna assai travagliata, non tutto è nelle sue mani, e resta sostanzialmente irrisolto quello scarto tra il dire e il fare. A Trentin si riconosce un primato più teorico che pratico, e l’organizzazione segue i suoi ritmi e le sue logiche, che non sempre sono in sintonia con le intuizioni politiche del Segretario generale. È la dialettica viva e reale di una organizzazione complessa, dove nessuno, per fortuna, può disporre di un potere di comando incondizionato. E Trentin non ha mai tentato di imporre il decisionismo esclusivo del leader. Ha combattuto le sue battaglie, con estrema chiarezza e trasparenza, ma senza mai cercare di alterare le regole della democrazia interna. Anche di questo gli dobbiamo essere riconoscenti, nel momento in cui troppi, anche a sinistra, sembrano essere affascinati dal modello del leader carismatico a cui si consegna la facoltà di fare e disfare secondo il suo arbitrio, senza che ci sia neppure un’ombra di discussione collettiva.

La figura di Trentin, quindi, racchiude in sè un conflitto mai del tutto risolto, non solo, come è ovvio, con le forze esterne interessate a indebolire la forza contrattuale del sindacato, ma anche nella dialettica interna di un sindacato che è continuamente attraversato da spinte corporative, settoriali, opportunistiche. C’è quindi una situazione di sofferenza, perché si tratta sempre di agire all’interno di un campo di contraddizioni, e in Trentin questa sofferenza resta come un sottofondo non esibito, come una condizione interiore vissuta con grande riserbo e distacco, con quell’atteggiamento un po’ aristocratico che gli era proprio, di un capo che vuole decidere solo attraverso il consenso e la razionalità, e sa come il cammino della ragione procede sempre in mezzo ad infiniti ostacoli e resistenze. Io vorrei ricordarlo così, con questa sua complessità, con questa sua personalità problematica, preso in questo lavoro infinito che consiste nel cercare una coerenza tra le idee e i fatti, nel ricondurre tutta l’azione pratica del sindacato ad un orizzonte di senso, a una finalità razionale, facendo del sindacato un soggetto consapevole, capace di un suo autonomo progetto.

Ho invece sentito molte note stonate nelle commemorazioni ufficiali di questi giorni, perché si è cercata una lettura strumentale e parziale della figura di Trentin, e come spesso purtroppo accade la verità viene piegata a piccoli calcoli di bottega. Secondo questa rappresentazione deviata, Trentin è solo il dirigente che si assume la responsabilità di firmare l’accordo del 31 luglio del ’92, che ha il coraggio di sacrificare le ragioni di parte del sindacato alle ragioni supreme dell’interesse nazionale. Ma è proprio quello il momento del più drammatico conflitto tra il realismo della politica contingente e l’idea di un sindacato progettuale. Trentin quell’accordo lo subisce, stretto nella morsa di una situazione che non gli lascia margini di manovra, e lo considera per quello che è, come un grave arretramento dell’azione del sindacato, fino al punto di rassegnare le sue dimissioni. E il punto controverso non è la scala mobile, ma il fatto che si sancisce il blocco della contrattazione aziendale, intervenendo così su quello che è un nodo nevralgico dell’autonomia sindacale e della sua capacità di rappresentanza. È davvero paradossale che di Trentin venga esaltata quella che lui ha sempre considerato una sconfitta, sua personale e della Cgil, una sconfitta che poi ha saputo rimontare e neutralizzare con il successivo protocollo siglato con il governo Ciampi, che ricostruisce un quadro istituzionale nel quale il sindacato recupera pienamente la sua funzione negoziale, dentro una cornice condivisa di regole e di obiettivi di sviluppo.

Ma tutto questo non avviene a caso, perchè in sostanza si vuol dire che un sindacato responsabile deve sempre saper rinunciare alla sua parzialità quando sono in gioco gli interessi superiori del paese, e questi interessi sono rappresentati solo dalla politica, dal sistema dei partiti, secondo il vecchio schema del “primato” della politica rispetto alla parzialità dei soggetti sociali. Un’idea, questa, che era del tutto estranea al pensiero di Trentin, nel quale era fortissima la concezione del sindacato come forza autonoma, che ha le sue radici nella rappresentanza sociale, e che a partire da queste radici sfida la politica e avanza un suo progetto generale, senza mai adattarsi ad una funzione di fiancheggiamento. Il tentativo di presentare Trentin come l’esponente di un sindacalismo rinunciatario e subalterno è del tutto grottesco e miserabile, perché tutto il senso della sua azione e del suo pensiero va esattamente nella direzione opposta, verso l’idea di un sindacato che ha un suo autonomo progetto di società, e a questo , solo esclusivamente a questo, adatta i suoi comportamenti e le sue tattiche.

La parola – chiave che meglio riassume il pensiero di Trentin è l’idea di “progetto”. Il sindacato supera la dimensione corporativa e settoriale nel momento in cui riesce ad elaborare un progetto di società, e a questo punto si confronta alla pari con le forze politiche, senza accettare nessuna delimitazione dei rispettivi spazi di competenza, proprio perchè la soggettività sociale non può essere rinchiusa dentro un confine corporativo, ma chiama in causa gli assetti generali della società e le strutture del potere politico. Il lavoro di Trentin è stato un incessante lavoro di progettazione, per cercare di definire un nuovo possibile modello sociale, nel quale sia diverso il destino delle persone e siano garantiti i diritti fondamentali di cittadinanza, nel lavoro e nella vita sociale. Il progetto deve camminare sulle gambe della realtà, con le forze che sono disponibili, con i rapporti di forza che sono dati, ma non può essere mai sacrificato alle contingenze tattiche della politica. In Trentin erano vivissimi questi due aspetti: il senso realistico dei rapporti sociali, di ciò che si può fare e di ciò che va oltre la nostra portata, e insieme l’assoluta coerenza di una ispirazione di fondo, centrata sui principi di libertà e di egualianza, che può essere realisticamente graduata, che può rendersi disponibile a soluzioni di compromesso, ma che non può mai rovesciarsi nel suo opposto. Il discorso risulta ancora più limpido se vediamo qual è, per Trentin, il rovescio negativo di tutta la sua ispirazione, l’ostacolo principale che continuamente si frappone alla realizzazione di un qualsiasi progetto sociale. La forza del negativo è il trasformismo ovvero l’idea che tutto debba essere subordinato alla politica , che conta solo la manovra tattica per il potere, per cui tutte le istanze di libertà debbono sempre esser rinviate ad un “dopo”, e intanto c’è solo lo spazio per una lotta politica senza principi. Come si vede, il trasformismo, e il primato della politica , secondo Trentin, fanno tutt’uno, e non a caso egli rifiuta nettamente l’eredità leninista, perché qui sta il germe di tutte le degenerazioni successive.

Con questo metro di giudizio, la politica attuale appariva a Trentin come il segno di un generale trasformismo, perché c’è un feroce scontro di potere, ma non è affatto chiaro quale sia l’oggetto di tale scontro, quali siano, e se vi siano, progetti di società tra loro alternativi. La politica pretende il comando, ma non sa enunciare i suoi obiettivi. E sta qui la ragione principale del disincanto, del distacco, del rifiuto della politica, perchè ciò che si vede è solo la competizione per il potere, e non l’alternatività dei progetti. Questo “pessimismo” di Trentin non mi sembra affatto ingiustificato, perché ciò che oggi tutti, o quasi tutti, dicono è che siamo entrati in un’era post-ideologica, nella quale quindi non c’è più spazio per nessuna idea di trasformazione, ma si tratta solo di gestire l’esistente. Lo stesso riformismo, che è stato una grande forza di cambiamento, è ormai ridotto, nel linguaggio politico corrente, a questa devastazione del pensiero, perché ogni tentativo di guardare oltre la realtà data è subito bollato come un’inaccettabile invadenza dell’ideologia. Il politico moderno, insomma, è il politico che ha rinunciato a pensare.

Trentin ci indica un'altra strada , perché fino all’ultimo ha cercato di pensare e si è interrogato su come sia possibile organizzare su nuove e diverse basi la nostra società. Le sue proposte e le sue risposte possono ovviamente essere discusse e criticate. Ma ciò che è davvero decisivo è porsi le domande, le domande giuste sul senso del nostro lavoro e sul progetto al quale intendiamo lavorare. Se dobbiamo oggi dire che cosa è destra e che cosa è sinistra, potremmo semplicemente dire che la sinistra si interroga e che la destra si adatta all’esistente. Contro i pragmatisti di tutte le specie, che anche nella sinistra sono purtroppo numerosi e prepotenti , ricominciamo allora a sollevare delle domande, sul senso della politica, sulla sua prospettiva. Possiamo fidarci solo di chi è interessato a rispondere, a discutere. Gli altri, presi solo nel loro gioco di potere, lasciamoli al loro destino.

Riccardo Terzi