Un sindacalista sulle vette, di Stefano Ardito

E' uscito sulla Rivista della Montagna di giugno- luglio 2009 un articolo a firma di Stefano Ardito  su BrunoTrentin, sotto il titolo 'Un sindacalista sullo Spigolo giallo'. Eccone il testo e, di seguito. l'intervista allo stesso Trentin, fatta da Ardito nel 1989.

Per mezzo secolo, le montagne dell’Alta Pusteria hanno avuto un amico speciale. Si chiamava Bruno Trentin, ed è stato uno dei pochi sindacalisti capaci di lasciare il segno nella storia dell’Italia contemporanea.

Dal 1962 al 1977 (e quindi attraverso il Sessantotto e l’autunno caldo del 1969) è stato segretario della Fiom, il sindacato metalmeccanici della Cgil. Nel 1988 è passato alla guida della Cgil stessa, che ha diretto fino al 1994. Più tardi, dal 1999 al 2004, è stato parlamentare europeo per i Democratici di Sinistra.

Dalla Resistenza alla montagna
Nato nel 1926 in Francia, dove il padre Silvio, professore antifascista di San Donà di Piave, era espatriato, Bruno Trentin rientrò in Italia con la famiglia dopo l’8 settembre 1943 per partecipare alla Resistenza. Fu arrestato, poi a 17 anni divenne comandante di una brigata partigiana di “Giustizia e Libertà”. Dopo la laurea a Padova, completò i suoi studi all’Università di Harvard, negli Usa, un dato biografico raro per un dirigente della Cgil e del Pci del dopoguerra. Bruno Trentin è morto a Roma nell’agosto 2007, a 81 anni, dopo una lunga degenza in ospedale, per i postumi di una caduta in bicicletta, avvenuta un anno prima lungo la pista ciclabile che da San Candido scende verso il Tirolo orientale e Lienz. La bici era per lui un altro modo per godere la montagna, dopo decenni in cui l’alpinismo e i sentieri avevano avuto nella sua vita uno spazio difeso con le unghie e con i denti. Chi scrive ha conosciuto Trentin nei primi anni Settanta, nel piccolo mondo dell’alpinismo romano. Prima al Gran Sasso, dove il segretario della Fiom e della Cgil ha arrampicato per molti anni con gli inseparabili Franco Cravino e Bruno “Dado” Morandi. Poi a Sperlonga, la prima falesia moderna del Lazio, dove non temeva di mettersi alla prova nonostante fosse ormai vicino ai settant’anni.

L’intervista del 1989
Nel 1989 – vent’anni fa – dopo mesi di insistenza sono riuscito a ottenere la prima (e per quanto ne so, l’unica) intervista di Bruno Trentin sulla sua passione per l’alpinismo, pubblicata qualche mese dopo da Alp. Di quel colloquio ricordo la cordialità, una certa complicità tra noi “montanari” innamorati dei medesimi luoghi. Ma anche il tono vagamente imbarazzato, che mi ha fatto sentire fuori posto. Come se fossi andato a mettere il naso in uno spazio privato, gelosamente difeso, al quale avevano avuto accesso, fino ad allora, solo pochi amici fidati.
Sulle pareti dell’ufficio del segretario della Cgil ricordo un manifesto e una foto. Il primo era un’immagine di arrampicata sportiva, fatta di roccia e di sole, il volto della montagna spensierata. La seconda un ritratto di Guido Rossa, il sindacalista e alpinista assassinato nel 1979 dalle Brigate Rosse. La montagna come impegno che prosegue nella vita.

«Conosco, amo e rispetto l’Alto Adige, ma non lo mitizzo. La civiltà del maso chiuso ha salvato la natura ma ha oppresso l’uomo. Dobbiamo prenderne atto ma non mitizzarla». «Per risolvere i problemi di quella terra bisogna evitare il muro contro muro, creare un grande esperimento multietnico» mi ha detto Trentin in quell’occasione. In quella mezz’ora strappata a un’agenda strapiena, mi ha raccontato di aver conosciuto la montagna da ragazzo, poi l’alpinismo negli anni Cinquanta sulle Dolomiti; di aver scoperto quasi per caso l’alpinismo romano e il Gran Sasso dopo essersi trasferito nella Capitale. E che negli anni Sessanta e Settanta era stato duramente criticato – e persino diffidato – nel sindacato e nel partito, per il tempo dedicato all’alpinismo. Ma quel fine settimana ogni mese e quei quindici giorni ogni estate da dedicare alla montagna li aveva sempre difesi con le unghie e con i denti. «Ho scoperto con gioia che l’alpinismo è l’unica cosa che mi fa vivere per dodici ore senza pensare ad altro» mi aveva detto con uno dei suoi rari sorrisi.

La via sovversiva
Uomo delle Alpi orientali, vissuto per decenni a due ore d’auto dal Gran Sasso, ogni estate Trentin ha salito una decina di vie dolomitiche, in parte con i suoi amici romani e in parte con le guide della Val Pusteria. Con Cravino e Morandi (e in altri casi con Enrico Ercolani e Franco Alletto) ha percorso grandi classiche dei Monti Pallidi come la Bettega alla parete Sud della Marmolada e lo spigolo del Crozzon di Brenta, e ha aperto due vie sulle Dolomiti di Sesto. La Via Fiom, un bell’itinerario di quarto grado tracciato nel 1966 sul Sasso di Landro, è uscita senza nome sulla guida Berti del 1973: in quel periodo una dedica al sindacato sembrava sconveniente se non addirittura “sovversiva”. «Negli stessi anni, al Gran Sasso, era stato censurato dalla guida Cai-Touring il nome della Via Che Guevara. Invece è rimasto quello della vicina Via Iskra, ma solo perché gli autori non sapevano che quello era il nome del primo giornale di Lenin» mi ha ricordato Trentin con un sorriso.Sulle Dolomiti di Sesto, la via aperta nel 1971 da “Dado” Morandi e Bruno Trentin sul Crodon di San Candido, di fronte al rifugio Locatelli, è sempre stata senza nome, e questo ha evitato ulteriori polemiche. Nello stesso massiccio, il sindacalista innamorato delle crode ha compiuto le sue salite più importanti. Alla corda di Heinz Gütl, guida alpina di Sesto, nel 1987 Trentin ha salito lo Spigolo Giallo della Cima Piccola, una delle vie più celebri delle Dolomiti e delle Alpi.

Pochi giorni prima, a sessantun anni, Bruno si era tolto la soddisfazione di percorrere la sua prima via di sesto grado. «Una via bellissima e dura, di seicento metri di sviluppo, aperta proprio da Gütl e dove lui stesso ha scelto di portarmi» mi ha raccontato con un sorriso nel 1989. «Ma che aveva solamente un difetto, quello di finire sulla Cima Piatta Bassa (Unterebenkofel in tedesco), nel massiccio della Croda dei Ba-ranci. Insomma, la cima con il nome più sfortunato delle Alpi. L’ho preso come un segno del destino. Del mio unico sesto grado, non mi sarei mai potuto vantare con nessuno».
L'intervista di STEFANO ARDITO pubblicata su ALP n. 50 giugno 1989
La via FIOM: le arrampicate di Bruno Trentin
La scalata del neo segretario alla massima carica della CGIL non è stata preparata da allenamenti particolari. Questi li riserva alle pareti di casa, dal Gran Sasso a Leano, o alle amate Dolomiti. Ad esse affida da anni, per scelta strenuamente difesa, i momenti di relax. «Uno spazio di vita, un bisogno terapeutico, un elemento di salvezza», queste le motivazioni che a 62 anni spingono il leader sindacale a continuare la sua esperienza alpinistica. E alle posizioni di Messner e Langer affida le sue speranze per la salvaguardia di un pianeta che ama.

Ci sono due foto di montagna, nella stanza più importante del sindacato italiano. Una di gioco, l’altra per pensare. Un'immagine di arrampicata sportiva: sole, colori, una montagna spensierata. E una foto di Guido Rossa, il sindacalista e alpinista torinese ucciso dalle Brigate Rosse nel momento più cupo degli anni di piombo. La montagna come impegno, che continua nella vita.
L’impegno non manca di certo, nella vita di Bruno Trentin. Sulla poltrona di segretario della CGIL, l’uomo più popolare del sindacato italiano è arrivato nello scorso autunno, a 62 anni, al termine di un travaglio che ha scosso profondamente la confederazione. C’è anche la montagna, però. Scoperto in un’età già matura, l’alpinismo si è trasformato negli anni in una passione bruciante, difesa con le unghie e con i denti dalle insidie di un’agenda fin troppo piena.
I suoi compagni di cordata parlano di un uomo che arrampica senza problemi da secondo sul quinto, e da capocordata sul quarto, in palestra e in montagna. Di una passione fortissima, e di una grinta feroce, che porta Trentin a «provare a fare qualcosa anche quando piove, a partire da solo per una via ferrata se non c’è nessuno con cui arrampicare».
Per gli alpinisti della capitale e dintorni, quella di Trentin è una presenza consueta. Non è difficile incontrarlo sulle pareti del Morra, di Leano, del Gran Sasso, con l’inseparabile Franco Cravino, uno dei migliori arrampicatori romani degli anni ’50 e ’60. L’estate dei suoi sessant’anni, Trentin si è “tolto uno sfizio”. Ha salito, con una guida di Sesto, lo Spigolo giallo, mito del sesto grado.
Di certo, un uomo come Trentin non ha paura del cronista. Pure, alla richiesta di un’intervista sul suo alpinismo ha avuto una reazione stupita, e forse un po’ di imbarazzo. Con il tempo, l’imbarazzo si è trasmesso a chi scrive: come se si trattasse di ficcare indebitamente il naso nell’ultima oasi di privacy di un uomo, in un mondo tenuto finora gelosamente al riparo da curiosità sindacali e non. Uno spazio di vita, una cura, come leggerete più avanti nelle parole dello stesso Trentin.
Uomo di una generazione travagliata, il segretario della CGIL pratica un alpinismo di stile classico, senza clamori eccessivi. Legato alla Val Pusteria e alle Dolomiti, sceglie spesso per le sue arrampicate pareti non certo di moda: i Baranci, i Cadini di Misurina, le vette secondarie intorno alle Tre Cime. Uomo di sinistra, ammette di riconoscersi nei valori tradizionali della montagna, pur se liberati dalla retorica degli scorsi decenni.
Un’intervista deludente, allora? Non direi, anche se il giudizio spetta naturalmente al lettore. In un’epoca in cui la montagna si affaccia sui media attraverso le braghe multicolori dei free-climber e gli elicotteri di papa Wojtyla, una storia come questa fa l’effetto piacevole di un buon bicchiere di vino. E ricorda vicende e aneddoti di un tempo in cui la sinistra non aveva cittadinanza (almeno, a livello ufficiale) tra i monti.
Nei giorni dell’elezione di Trentin a segretario CGIL, più di un quotidiano si è soffermato sulla via FIOM aperta sul Sasso di Landro, alle soglie dell’autunno caldo, dallo stesso Trentin con Cravino e Bruno “Dado” Morandi. Curiosità, ma significativa dei tempi, è il fatto che quella via sia stata riportata sulle pubblicazioni del CAI censurando il nome “sovversivo”. Negli stessi anni, al Gran Sasso, spariva misteriosamente dalla guida ufficiale la via Che Guevara.
Chi scrive, ricorda con piacere un aneddoto ancora diverso. Il primo incontro con Trentin e compagni al Gran Sasso, al rifugio Franchetti, in una sera di quindici anni fa.
In un angolo della sala da pranzo, un gruppo di signori di mezza età e dall’aria decisa cantava canzoni anarchiche, partigiane, del Sessantotto e dintorni. Da un tavolo vicino, una comitiva in puro stile-CAI tentava di contrapporre la “Montanara” e “Quel mazzolin di fiori” al “Fosco fin del secolo morente” e a “Contessa”. C’è stato un alterco breve, un timido «ma questa non è roba da rifugio».
Poi la comitiva si è ritrovata a cantare dei suoi fiori e dei suoi monti all’esterno, sotto un bel cielo stellato.

Trentin, la vita del segretario della CGIL non è certo leggera. Oltre agli impegni sindacali, lei ha di fronte anche quelli di partito. Quanti giorni all’anno riesce a dedicare alla montagna? E con quali problemi?

«Riesco ad arrampicare almeno una volta al mese, e una quindicina di giorni ogni estate. A parte le palestre, significa che riesco a fare ogni anno tre o quattro vie al Gran Sasso, e una decina sulle Dolomiti. È uno spazio che ho conquistato nel tempo, e che difendo con i denti».

Questo non le crea dei sensi di colpa? E non le attira critiche?

«Il senso di colpa l’ho vissuto e l’ho superato. Quando ero più giovane, sono stato criticato per le mie “fughe” in montagna, qualche volta addirittura diffidato. Ormai, l’arrampicata è un bisogno di cui non so fare a meno».

Bisogno, fuga, passione. Quale delle tre parole definisce meglio il suo rapporto con l’alpinismo?

«Ci ho messo del tempo a capirlo: per me, l’arrampicata è diventata un bisogno terapeutico, un elemento di salvezza. È l’unica cosa che riesce a farmi un lavaggio completo del cervello. In fondo, è proprio questa la differenza tra l’alpinismo e qualunque altro sport. C’è un impegno intellettuale, c’è quel tanto di rischio che ti costringe all’attenzione, al raziocinio. Dopo anni di montagna, ho scoperto con gioia che l’alpinismo è l’unica cosa che mi fa vivere per 12 ore senza pensare ad altro».

Da dove viene, il suo alpinismo? Una passione di famiglia, un amore giovanile, una scoperta più tarda?

«La montagna, intesa come camminata, la conosco da sempre. Ad arrampicare ho iniziato a poco più di trent’anni, per gradi. Prima ho preso una guida, ho fatto qualche via facile sulle Dolomiti. Poi, una domenica, sono andato a vedere il Gran Sasso: ero a Roma da poco, ero già vicesegretario della CGIL, sarà stato il ’58 o il ’59».

È andato di nuovo con la guida?

«No, sono andato da solo, e non sapevo praticamente nulla di quella montagna. Ho preso un pullman per L’Aquila, sono sbarcato in funivia a Campo Imperatore, sono salito al Corno Grande per la “direttissima”, un itinerario di roccette, primo e secondo grado. Non avevo nemmeno uno zaino, ricordo che mi ero portato dietro una specie di borsa. In discesa, ho incontrato un gruppo di strani personaggi, alpinisti veri, che tornavano dal Corno Piccolo. C’erano Dado Morandi, Franco Alletto, Franco Cravino. Abbiamo fatto amicizia, poco dopo mi sono iscritto al corso di roccia del CAI».

Erano strani, però erano anche forti. In quegli anni, il giro dei romani di punta era uno degli ambienti più attivi d’Italia: Morandi e compagni facevano ripetizioni importanti in Dolomiti, aprivano vie nuove, partivano per l’Himalaya. Lei come ha fato a inserirsi?

«Per mia fortuna, era gente che aveva appena fatto le sue cose migliori, e che aveva voglia di arrampicare su vie più tranquille. Mi sono legato molto a Morandi e Cravino, ho arrampicato spesso con altri due sucaini romani, Luigi Pieruccini ed Enrico Ercolani. Un alpinismo tra Dolomiti e Gran Sasso, serio, su difficoltà classiche».

Può citare qualche salita di quegli anni?

«Ce ne sono tante. Per esempio, lo spigolo del Crozzon, la Fehrmann, la Bettega alla Sud della Marmolada, con un temporale violentissimo alla fine. Poi la Dimai alla Tofana, lo spigolo Iori a Punta Fiammes...».

Quando lei è diventato segretario della CGIL, qualche giornalista ha ironizzato sulla via FIOM aperta in Lavaredo. È un prodotto di quegli anni?

«Della fine degli anni 60. È una via piacevole, 300 metri di quarto, sul Sasso di Landro, aperta con Cravino e Morandi. Solo con Dado, lo stesso anno, ho aperto un’altra bella via sul Crodon di S. Candido, stavolta senza nomi politici. C’è anche un aneddoto: sulla guida di Berti, la via FIOM è stata riportata senza il nome, che evidentemente era un po’ troppo sovversivo».

Negli stessi anni, lo stesso succedeva anche al Gran Sasso...

«Lo so, con la Che Guevara degli ascolani, che è stata censurata dalla guida del 1971. Però gli autori erano un po’ ignoranti: non hanno cambiato nome alla Iskra aperta a cento metri di distanza dal mio amico Cravino. Non sapevano che è il nome del primo giornale di Lenin».

Torniamo alla sua attività: è rimasta la stessa fino ad oggi?

«Più o meno sì. Nell’estate ’87, con Heinz Gütl, una guida di Sesto, mi sono tolto una grossa soddisfazione, lo Spigolo giallo. Qualche giorno prima, avevamo salito una via magnifica e ancora più dura, sulla vetta con il nome più sfortunato delle Alpi. La Cima Piatta Bassa, pensi un po’. La via però è di 600 metri, bellissima, aperta dallo stesso Gütl. L’ambiente è stupendo, nel gruppo dei Baranci».

Tante Dolomiti, insomma, e un po’ di Gran Sasso. Non la interessano le Alpi Occidentali?

«In teoria sì. Però devo fare i conti con la mia vita, con i miei 15 giorni l’anno che riesco a strappare con le unghie e con i denti. Ho paura che il brutto tempo mi freghi, in Dolomiti anche se pioviggina si riesce sempre a fare qualcosa. Per concentrarmi sull’arrampicata, non ho nemmeno imparato a sciare».

Una decina di anni fa, intorno al ’68 e al “Nuovo Mattino”, a molti sembrava che ci fosse un collegamento diretto tra l’essere di sinistra e l’andare in montagna. C’è una generazione, la mia, per la quale le fasce nei capelli e la voglia di libertà legavano a filo doppio la montagna alla scuola o alla fabbrica. Com’è stato, per lei, arrivare come uomo di sinistra in un alpinismo dove prevalevano posizioni ben diverse?

«All’inizio non avevo illusioni, ero convinto che quello della montagna, almeno in parte, fosse un ambiente fascista. L’incontro con Morandi e soci al Gran Sasso è stato una sorpresa anche per questo: loro cantavano canzoni partigiane, non “la Montanara”. Mi sono incuriosito, e ho scoperto altre cose: per esempio un’associazione di Monza che si chiama Proletari Alpinisti Antialcolici, che esiste ancora. Il cattolicesimo, le canzoni degli alpini hanno sommerso un po’ tutto: però una componente popolare, di sinistra, è sempre esistita nell’alpinismo italiano. Basta pensare a Vinci, a Ratti, a Cassin».

E dal punto di vista dei valori? Esistono davvero quelli tradizionali dell’alpinismo?

«Penso di sì, nonostante intorno vi sia stata ricamata molta retorica. La montagna è davvero una scuola di vita, ti mette davvero alla prova, può trasformare un’amicizia. È un po’ come il carcere, in fondo: ci si può odiare davvero, oppure può nascere un bellissimo rapporto di fiducia reciproca. Poi c’è il gioco, un po’ puerile ma bello, del sentirsi esploratori dell’ignoto, anche su una via che è stata fatta venti volte».

Oggi, la sinistra e il sindacato sono molto cambiati. Non la rimproverano più, non si stupiscono più per il suo alpinismo?

«No, assolutamente. C’è un sacco di gente che ha riscoperto un certo tipo di vita privata, non necessariamente in montagna. Uno dei miei compagni di cordata abituali è Giovanni Lolli, il segretario regionale del PCI abruzzese. Arrampica bene...».

Il mondo dell’arrampicata sta cambiando in fretta. Lei conosce le falesie moderne, il mondo del free? E che opinione ne ha, di fronte ai valori classici del suo alpinismo?

«Devo essere sincero: l’arrampicata di oggi mi dà innanzitutto un complesso di inferiorità spaventoso. È la dimostrazione di come, impegnandosi e avendo l’età, si possano fare cose straordinarie. Sperlonga l’ho vista dal basso, però frequento le palestre tradizionali del Lazio: il Morra, Leano, Gaeta. Continuo a pensare che dopo la palestra ci sia qualcos’altro, che il progresso in falesia debba essere un mezzo e non un fine: forse sono classico in questo. E mi danno fastidio le degenerazioni: è assurdo che esista gente che riempie di magnesite gli appigli delle vie di terzo e quarto».

Rispetto ai libri di montagna, gli alpinisti si dividono in due categorie: quelli che leggono tutto, e quelli che non leggono niente. A quale appartiene?

«A una categoria di mezzo. Ho letto un po’ di libri di montagna, non molti. Mi è piaciuta molto la vecchia antologia Scalatori, ho letto i libri di Cassin, di Bonatti, di Maestri. Soprattutto Maestri ha scritto delle cose molto belle, molto vere. In francese, ho letto Annapurna, premier 8000 di Herzog, e poi l’autobiografia di Mazeaud: confesso che mi è sembrato un esaltato preoccupante. Mi è piaciuto molto Il limite della vita di Messner: per me è il libro di montagna più vero che sia mai stato scritto».

Oggi, il sindacato e il mondo degli alpinisti hanno una cosa in comune. Devono fare i conti con i problemi dell’ambiente, trascurati da decenni. Qual è la sua esperienza in materia?

«So che è un problema formidabile. Non mi piace un certo fondamentalismo, non mi sento di dire che la natura abbia dei diritti. Sono convinto che l’uomo abbia dei diritti, e che tra questi ci sia quelli di sopravvivere in un ambiente accettabile. Di più: credo che tra i diritti delle persone ci sia anche quello di potersi muovere in angoli di natura relativamente incontaminati, e che questi vadano difesi».

Pure, il sindacato su questo ha dei grossi ritardi...

«Lo so bene. Dobbiamo cambiare approccio al problema, trovare soluzioni nuove, radicali. Le faccio un esempio. Abbiamo di fronte il caso di una fabbrica di amianto, a Casale Monferrato, che ha avvelenato per anni i suoi operai ma anche i cittadini. Ora è chiusa, e noi ci opporremo a che riapra. Mi creda, non è facile, per il sindacato, dire questo».

Lei è molto legato all’Alto Adige. Frequenta da decenni la Val Pusteria, ha amici sudtirolesi. Cosa pensa dei problemi di quella terra?

«È una terra che rispetto ma che non mitizzo. La civiltà del maso chiuso ha salvato la natura ma ha oppresso l’uomo: prendiamone atto, ma non mitizziamola come fa qualcuno. Piuttosto, in Sudtirolo, ammiro il coinvolgimento della gente nei problemi collettivi, il modo in cui sono amministrati i Comuni, la passione e la serietà con cui si discute della cosa pubblica».

E il conflitto con l’altra componente, quella italiana?

«Sono polemico con il modo in cui il governo italiano ha affrontato il problema. Un tira e molla estenuante che alla fine ha premiato il MSI. Non bisogna difendere l’una o l’altra minoranza oppressa, bisogna giocare il gioco fino in fondo, creare un grande esperimento plurietnico. Ho molta simpatia per i tentativi di mettersi fuori dalla logica della “scelta ad ogni costo”, per le posizioni dei Verdi o della Nuova sinistra».

Conosce Alexander Langer e Reinhold Messner?

«Solo di sfuggita, ma non ho il minimo dubbio. Le loro posizioni sono l’unica speranza, per una terra che amo».