Convegno: "Di Vittorio. Gli anni del confino”

Il 4 e 5 ottobre si è svolto il convegno dal titolo “A Cinquanta anni dalla scomparsa di Giuseppe Di Vittorio. Gli anni del confino”, organizzato dal Comune di Ventotene e dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Pubblichiamo di seguito in allegato gli  interventi di Francesco Giasi e di Filomena Gargiulo.

Francesco Giasi

In occasione delle celebrazioni per il cinquantenario della morte di Giuseppe Di Vittorio, la Fondazione che porta il suo nome ha scelto giustamente di non limitarsi alle commemorazioni dettate dall’occasione. Accanto ad una serie di iniziative commemorative, ha deciso, infatti, di promuovere ricerche, pubblicazioni, convegni, che consentissero di riavviare una discussione approfondita sulla figura di Di Vittorio. Ciò si è fatto non solo in Italia, ma anche all’estero, con giornate di studio a Parigi, Barcellona, in America Latina e in altre parti del mondo. Nel quadro delle celebrazioni sono state finalmente compiute delle ricerche sul periodo trascorso da Di Vittorio in Spagna durante la guerra civile e si è fatta finalmente luce su questo momento abbastanza sconosciuto della sua vita. Vi sono state significative pubblicazioni, tra cui la raccolta dei suoi scritti giornalistici del periodo 1944-1957 mai prima pubblicati in volume; prossimamente uscirà un numero degli annali della Fondazione dedicato ai “nuovi studi e alle nuove interpretazioni” che raccoglierà alcuni contributi presentati nei diversi convegni organizzati nel 2007. Infine, sono state avviate una serie di ricerche archivistiche che si concluderanno con la pubblicazione di un volume di documenti tratti dal fascicolo del Casellario politico centrale a lui intestato e conservato presso l’Archivio centrale dello Stato.

Tenere insieme negli anniversari il momento celebrativo – anche rituale, di liturgia civile – e gli studi, cercando nello stesso tempo di suscitare un dibattito pubblico è il modo migliore per onorare qualsiasi uomo politico che appartenga alla storia democratica del nostro Paese. Celebrare Di Vittorio ha significato ridiscutere del Mezzogiorno, dei diritti dei lavoratori, del ruolo e delle funzioni del sindacato, dei diritti costituzionali, del percorso che le classi subalterne hanno seguito in Italia per la loro emancipazione. Parlare di Di Vittorio confinato politico qui a Ventotene non ci può esimere dal riflettere sui caratteri della repressione politica in Italia dal 1922 al 1943. Poiché è stato molte volte ripetuto che, alla fin fine, i confinati vissero in una piacevole villeggiatura, sarebbe bene finalmente riaprire una seria discussione pubblica sulla repressione politica negli anni del regime fascista. Bisognerà farlo prima o poi. Chi erano i confinati politici? Chi erano i prigionieri politici? Chi erano gli esuli? Per dare una prima risposta basterebbe scorrere il lunghissimo elenco del Casellario politico centrale della polizia fascista e leggere alcune biografie. Troveremo non solo politici e intellettuali, ma operai di fabbrica, muratori, braccianti, tipografi, giovani socialiste e comuniste dalle cui biografie si può trarre esemplarmente il volto di quest’Italia al confino, in carcere, costretta all’espatrio e capire le ragioni di coloro che si opposero in maniera intransigente al fascismo. Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, istituito dopo la promulgazione delle leggi eccezionali del novembre 1926, e l’Ovra (la polizia politica fascista) perseguitarono almeno tre generazioni di dirigenti e militanti politici. Fu costretta all’esilio, al carcere e al confino una generazione di dirigenti attivi già tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento: la generazione di Filippo Turati, di Claudio Treves, di Giuseppe Emanuele Modigliani. Una generazione già anziana quando vi fu la marcia su Roma. Le prigioni e i luoghi di confino furono affollati da coloro che, diciamo così, erano giovani al tempo della Grande Guerra: è la generazione di Antonio Gramsci e Umberto Terracini. Dopo questa generazione fu perseguitata quella dei giovani che si formò nei primi anni del fascismo e quando il regime era pienamente instaurato: quella di Giorgio Amendola, di Eugenio Curiel, di Pietro Grifone, di Emilio Sereni. Tre generazioni di antifascisti a cui seguirà un’ultima generazione che tra il 1942 e il 1943 decise di aderire alla guerra antifascista: ventenni e meno che ventenni che ai primi anni di università o liceali addirittura decisero di partecipare alla guerra partigiana. Tre-quattro generazioni di uomini e, ma anche di donne, esiliate, imprigionate, diffidate, confinate nelle isole (Ponza, Santo Stefano, Ventotene, Ustica, Lipari, Favignana, Pantelleria, Lampedusa, Tremiti) e nei paesi della Basilicata e della Calabria (Montalbano Jonico, Grassano, San Giorgio Lucano, Aliano, ecc.), nei campi di internamento allestiti in numerose regioni italiane. Non solo comunisti e socialisti. Non solo il vecchio Turati che, grazie a Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Sandro Pertini e altri giovani socialisti riuscì a riparare in Corsica e quindi a Parigi; non solo Gramsci, deputato e segretario del Partito comunista d’Italia o Terracini, Scoccimarro, Roveda condannati a oltre 20 anni di reclusione. Non solo comunisti e socialisti, ma cattolici, liberali, repubblicani. All’esilio furono costretti Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti, già Presidente del Consiglio, fuggito perché ormai da tempo nel mirino dei fascisti. E la violenza si era manifestata in maniera cruenta molto prima della Marcia su Roma. Sarebbe interessante pubblicare un po’ di documentazione relativa al 1921-1922 e alla distruzione a tappeto delle camere del lavoro e delle strutture del movimento operaio organizzato. E poi ci fu la violenza cruenta degli anni in cui Mussolini era già al potere e che, per fare ancora qualche esempio, colpì Piero Gobetti, giovanissimo intellettuale torinese, morto per le percosse subite durante un’aggressione squadrista o Giovanni Amendola, ex ministro del Regno e leader dell’opposizione liberale antifascista, morto a Cannes anch’egli per i postumi di un’aggressione.

Giuseppe Di Vittorio rappresenta esemplarmente il volto di quest’Italia che si oppose in maniera intransigente al regime liberticida. Egli giunse a Ventotene nella seconda metà del 1941 e la lasciò il 22 agosto 1943. Egli appartiene a quella generazione che ho definito di “di coloro che erano giovani” negli anni della Grande guerra. L’aveva fatta Di Vittorio la guerra del 1915-18. Era nato nel 1892 a Cerignola, un grosso centro rurale della Capitanata, in provincia di Foggia. Ed aveva trenta anni quando Mussolini si insediò al governo dopo la Marcia su Roma. Quando giunse a Ventotene aveva alle spalle sedici anni di esilio trascorsi per lo più Francia, ma con lunghi periodi di permanenza in Belgio e – per le missioni affidategli dal centro estero del Partito comunista d’Italia – in vari paesi d’Europa, tra cui la Russia sovietica. Era stato costretto all’esilio nel 1926 dopo un periodo trascorso in carcere per attività sovversiva relativa per lo più agli ultimi due anni di attività politica. In realtà tra il 1924 e il 1926 si era occupato quasi esclusivamente dei lavoratori della terra nel Mezzogiorno, all’interno di un’organizzazione sindacale, una “associazione di difesa dei contadini meridionali”, promossa dal PCd’I. Si trattava in sostanza del suo mestiere. Del mestiere di dirigente ed organizzatore sindacale. Come è noto egli aveva iniziato prestissimo, quasi bambino, la sua milizia politica e sindacale. Ed era stato arrestato più volte nella prima gioventù. Costretto all’esilio in Svizzera già nel 1914, egli guidò le organizzazioni bracciantili della Puglia, dovendo fronteggiare la violenza padronale e quella dello Stato. Nel 1921 entrò in Parlamento – eletto mentre stava scontando una pena per reati politici – e assunse in seguito un ruolo di primo piano nella lotta antifascista e all’interno del Partito comunista, continuando a occuparsi principalmente di problemi sindacali. Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato lo condannò a 12 anni di carcere, in contumacia, perché ormai si rifugiato fuori dell’Italia. Dal 1930 fu a capo della Confederazione generale del lavoro ricostituita nel 1927 dai comunisti e costretta a svolgere in quegli anni un ridottissimo reclutamento clandestino tra i lavoratori italiani, ma capace anche di un’intensa propaganda all’estero. Tra la fine del 1936 e gli inizi del 1937 combatté nelle file degli antifascisti accorsi in Spagna a difendere la Repubblica dopo l’inizio della guerra civile. Rientrato a Parigi diresse la Voce degli italiani, il più importante giornale dei fuoriusciti antifascisti. Arrestato dai nazisti nel febbraio del 1941, fu in seguito consegnato alle autorità italiane che lo inviarono al confino. 

A Ventotene trovò, come è noto, la più consistente concentrazione di dirigenti antifascisti. Tra i suoi compagni di partito, Umberto Terracini, Camilla Ravera, Luigi Longo, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Girolamo Li Causi, Giovanni Roveda, Eugenio Curiel, Pietro Grifone, Battista Santhià, Gaetano Chiarini. Dalle lettere dei confinati e dai rapporti della polizia si ricostruisce abbondantemente il quadro della vita sull’isola. Anche le testimonianze, però, contribuiscono non poco a darci elementi utili per un’attendibile ricostruzione dato che molti confinati ci hanno lasciato belle pagine di ricordi sulla vita al confino nell’isola tra il 1935 e l’agosto del 1943. Tra queste testimonianze, abbiamo anche molti riferimenti a Di Vittorio. Pietro Secchia, dirigente del Pci arrestato nel 1931 e prigioniero anch’egli sino all’agosto del 1943, ci ha lasciato questa descrizione della loro vita sull’isola: «Oltre alle botteghe di falegnameria, di fabbro, legatori di libri, orologiai, pittori, ortolani, alcuni compagni lavoravano la terra in cooperativa e i prodotti servivano in parte per le mense. Il nostro kolcoz, cosí era chiamato, aveva la mucca, alcuni maiali, un allevamento di alcune centinaia di galline: vi lavoravano [principalmente] Gaetano Chiovini, Giuseppe Di Vittorio, Battista Santhià ed alcuni altri». Nella testimonianza di Girolamo Li Causi, a Ventotene dal luglio del 1939, ricorda le condizioni penosissime in cui si trovarono nell’ultimo anno di permanenza: «Dall’isola scomparvero tutti i cani e i gatti, le cui carni dure e coriacee diventavano vere leccornie in quelle condizioni. E veniva fuori la vera grandezza dei compagni: Di Vittorio, per esempio, il quale prese in affitto un appezzamento di terra in cui seminò delle fave; e fu così che nella primavera-estate del 1943 potemmo avere assicurato qualcosa di fresco e di vitaminoso, che, se pure non riusciva a sfamarci, ci permetteva tuttavia di non ammalarci seriamente. Altro problema molto grave era quello dei medicinali, i quali scarseggiavano o mancavano completamente». E ancora «Nello stesso camerone c'erano Di Vittorio e Curiel: tra i due si stabilirono non solo rapporti di profonda stima, ma vi fu una specie di simbiosi tra la preparazione ideologica dell'uno e l'esperienza politica dell'altro, al punto che Di Vittorio propose a Curiel di andare con lui il giorno della liberazione per lavorare assieme nel campo sindacale». In una testimonianza di Luigi Longo, futuro segretario del PCI, troviamo alcune accenni ai sistemi escogitati per tenersi informati su quanto accadeva in Italia e per assumere posizioni a riguardo: «Nonostante la sorveglianza, nessuno dei confinati rimaneva all’oscuro degli avvenimenti, e soprattutto delle considerazioni politiche che se ne potevano trarre. Per i comunisti, ad esempio, Scoccimarro, Secchia, Li Causi, Roveda, Di Vittorio e io, elaboravamo ogni settimana un rapporto di informazione sulla situazione italiana e lo diffondevamo “a catena”, fino a toccare tutti i compagni dell’isola nel giro di cinque o sei giorni. Ognuno di noi si dava a passeggiare con due compagni, tirandosi appresso le guardie incaricate di pedinarci, le quali però di stancavano presto e finivano per mettersi a passeggiare e a chiacchierare tra di loro. Ciascuno dei due compagni, a sua volta, ripeteva la relazione che aveva udita dagli altri due. Non si poteva certo giurare che il primo e l’ultimo contesto dicessero la stessa cosa; ma un orientamento, una qualche indicazione arrivava in questo modo, di certo, su tutte le questioni più importanti a tutti i compagni del confino». Da documenti conservati nell’Archivio del Partito comunista italiano sappiamo che le conversazioni non furono solo orali.

I confinati riusciro a scambiarsi opinioni anche attraverso rapporti scritti e tra loro nacquero contrasti profondi che portarono tra l’altro alla espulsione dal collettivo di Camilla Ravera e Umberto Terracini, critici nei confronti della politica di Stalin e dell’atteggiamento tenuto dal Pcd’I dopo la firma del patto Molotov-Ribbentrop. Anche Di Vittorio aveva contestato a Parigi quelle scelte e per questa ragione nacquero profondi dissidi col gruppo dirigente comunista all’estero. Durante il periodo di confino questa vicenda non poté non avere strascichi nei suoi rapporti con il collettivo comunista. In ogni caso, erano tutti in attesa della libertà e della fine del fascismo anche per avere finalmente l’occasione di esprimersi meno condizionatamente sulle tante questioni apertesi nel corso di oltre un quindicennio. E il giorno più atteso giunse il 25 luglio del 1943. Pietro Grifone ci ha lasciato un ricordo del giorno della caduta di Mussolini che è anche una testimonianza su Di Vittorio: «Nel Camerone n. 1 la notizia della caduta di Mussolini ce la portò poco dopo le sette il compagno Di Vittorio. Non a caso fu lui e non altri a darcela. Era infatti sempre Di Vittorio, assieme al compagno Giulio Turchi, ad uscire dal camerone per primo, non appena, alle 7 del mattino (d’estate), i poliziotti di guardia aprivano le porte. Da buon bracciante si alzava presto e, avendo la responsabilità della conduzione del piccolo podere che egli con altri compagni aveva preso in affitto, riteneva suo dovere essere il primo ad arrivare sul lavoro per procedere, tra l’altro, alla quotidiana mungitura del latte prodotto dall’unica mucca del kolcoz, latte che serviva ai compagni ammalati. L’esultanza fu grande, pari all’impegno che per tanti anni, nelle piú difficili situazioni, ci aveva tenuti tesi verso la libertà, contro il fascismo! L'esultanza fu grande ed anche rumorosa». Anche Camilla Ravera ci ha lasciato un bella testimonianza su quel giorno: «Un agente s’era affacciato alla porta del capannone delle confinate gridando: “Comunicazione importante. Tutti in piazza!” e s’era avviato subito correndo verso gli altri capannoni; ma poi si era girato un momento e aveva detto: “Hanno arrestato Mussolini”. In pochi minuti la piazza era affollata di confinati; e nel silenzio ansioso di tutti, da un apparecchi radio collocato sopra una loggetta, era giunto l’inno di Mameli, poi il comunicato del nuovo governo d’Italia. 

Le ultime parole “La guerra continua” avevano prolungato di qualche attimo il silenzio. Poi l’esultanza era esplosa; e i commenti, i discorsi, i dialoghi, avevano dato una gran voce, piena e pacata, al lento ritorno al capannone, a cui tutti s’erano diretti come per dare ordine ai pensieri e precisione ai propositi». E in effetti questi confinati appena usciti dalla prigionia, ripresero tutti, quasi senza eccezioni, la via della lotta politica per la ricostruzione del paese dalle macerie e per la liberazione dal nazismo. Saranno loro i protagonisti della nuova Italia. Per questa ragione il nome di quest’isola di confino non va legata soltanto a quello di Altiero Spinelli e di altri padri ideali dell’Europa Unita. Essa fu l’isola che ospitò i padri della nostra patria repubblicana e antifascista e anche a queste figure va legato il suo nome. Di Vittorio, dopo aver lasciato l’isola, ritornerà da subito al suo antico mestiere, impegnandosi nella ricostruzione del sindacato libero in Italia. Nel giugno del 1944, alla vigilia della liberazione di Roma, firmerà il patto per la costituzione della CGIL unitaria voluto da comunisti, cattolici e socialisti. Da membro della Assemblea costituente diede un decisivo contributo per la formulazione degli articoli relativi all’ordinamento sindacale. Da parlamentare, da leader di partito e da massimo dirigente della Confederazione generale del lavoro – da lui diretta dal 1944 sino all’ultimo istante della sua vita – lotterà per il consolidamento della democrazia conquistata all’indomani della sconfitta del fascismo.


Filomena Gargiulo

Giuseppe Di Vittorio fu al confino nell’isola di Ventotene dal 1941 al 1943; in realtà avrebbe dovuto scontare 5 anni, perché anche a lui, come alla maggior parte, era stata comminata quella che in gergo i confinati chiamavano “la cinquina”. Quando egli giunse a Ventotene, la colonia di confino di polizia era ormai avviata da anni e funzionava al meglio. La storia della colonia di Ventotene inizia, infatti, nel 1930 quando il Ministero degli Interni decise di chiudere, per problemi di sicurezza, la colonia di Lipari in seguito alla clamorosa fuga dei confinati Carlo Rosselli, Fausto Nitti ed Emilio Lussu, ma fu solo dopo la chiusura della colonia di Ponza, avvenuta nel 1939, che quella di Ventotene divenne quantitativamente e qualitativamente importante. Date le sue ridotte dimensioni e la natura delle sue coste alte e inaccessibili, se si esclude il porticciolo e le tre insenature, facilmente controllabili, Ventotene meglio d’ogni altra isola rispondeva alle esigenze di sicurezza richiesti dal capo della polizia Arturo Bocchini. Essa fu allora concepita come l’isola-colonia per eccellenza e per questo fu progettata una vera e propria cittadella confinaria costituita da 12 capienti padiglioni, uno per le donne, un’infermeria e un reparto per i tubercolotici, cosi come prevedeva il regolamento sulle colonie confinarie, e un’imponente caserma per la Pubblica Sicurezza. Fu trasferito sull’isola anche un reparto della Milizia Volontaria che prese alloggio nel vecchio castello borbonico che un tempo aveva ospitato i confinati. Sull’isola vi erano anche i carabinieri che si occupavano, oltre che della vigilanza, dei trasferimenti dei confinati. Anche Di Vittorio alloggiava nella cittadella confinaria e precisamente nel camerone numero 1 insieme con altri confinati comunisti.

Quando il confinato giungeva sull’isola, dopo un viaggio lungo e faticoso che prevedeva la sosta nelle celle di traduzione, sporche e infestate d'insetti, e un viaggio sul piccolo postale con i ferri ai polsi, era condotto presso i locali della Direzione di confino e dopo essere stato sottoposto ad accurato controllo, era privato dei suoi documenti personali e provvisto di una carta precettiva, il famoso libretto rosso. Lo scambio dei documenti non era solamente simbolico, da quel momento il confinato perdeva parte della sua identità e doveva sottomettersi ai numerosi precetti indicati nella carta di permanenza, che doveva sempre portare con sé, pena la denuncia all’autorità giudiziaria. La carta stabiliva il divieto assoluto di detenere armi (forbici, rasoi, temperini); di frequentare luoghi pubblici se non per il tempo necessario (vietato sostare in un bar o in un negozio, intrattenersi con gli isolani); di detenere radio, o apparecchi fotografici, macchine da scrivere; di parlare di politica; di scrivere e ricevere posta (era permesso l’invio di una sola lettera alla settimana di sole 24 righe, sottoposte sempre a censura). I confinati avevano l’obbligo di rispondere agli appelli due volte il giorno e di rispettare l’orario di uscita e rientro nei cameroni, oltre che i limiti di confino. Alcuni confinati erano pedinati speciali, avevano quindi come ulteriore umiliazione un milite che li seguiva a tre passi (i pedinati speciali erano: Scoccimarro, Secchia, Terracini, Longo, Pertini, Roberto, Bauer, Fancello, Calace, Traquandi, Domaschi). I confinati potevano passeggiare, non più di due, in un percorso delimitato da filo spinato e cartelli che indicavano il limite di confino, dunque solo per il centro del paese. La colonia era organizzata al meglio con un rigoroso sistema di sorveglianza che prevedeva una linea di demarcazione con sorveglianza diurna e notturna con uomini e mezzi, anche sul mare, adeguati ad un efficiente controllo di più di ottocento confinati. Quando Giuseppe Di Vittorio giunse a Ventotene la composizione politica della colonia era la seguente: il gruppo maggiore era quello rappresentato dai comunisti, circa quattrocento, con nomi importanti quali Umberto Terracini, Pietro Secchia, Luigi Longo, Mauro Scoccimarro, Camilla Ravera, Giovanni Roveda, Eugenio Curiel, Pietro Grifone; il secondo gruppo era quello degli anarchici con Gianbattista Domaschi, (autore di fughe rocambolesche), Paolo Schicchi (75 anni, il più anziano delle colonia, aveva girato tutte le isole confinarie ed era considerato fra gli anarchici una figura leggendaria); seguiva poi il gruppo dei socialisti, che si caratterizzava soprattutto per la presenza di Sandro Pertini, con Eugenio Colorni e Alberto Jacometti; importante era poi il gruppo dei giellisti (Giustizia e Libertà) con Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Vincenzo Calace, Francesco Fancello; vi era infine il gruppo dei federalisti europei che nacque a Ventotene e il cui capo era Altiero Spinelli che proprio sull’isola scrisse, con Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, il Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita e che diffuse clandestinamente in continente grazie alla complicità di Ada Rossi e Ursula Hirschmann.

Parallelamente all’efficienza del sistema di polizia che l’Ufficio Politico aveva messo a punto negli anni, la colonia dei confinati aveva perfezionato le sue organizzazioni comunitarie e la sua rete di comunicazione all’interno dell’isola e da e per il continente per la diffusione di messaggi e materiale clandestino. I comunisti avevano elaborato un complicato ma efficace sistema per la circolazione di notizie fra i componenti della colonia riuscendo ad eludere il controllo e la censura. Infatti, in quegli anni continuarono ad arrivare stampa e messaggi abilmente celati fra gli oggetti più disparati o con la complicità dei familiari in visita o di qualche isolano. Il collettivo della colonia fu sempre collegato con il centro esterno del partito e con alcune importanti organizzazioni italiane ed estere, dall’isola partivano direttive importanti e infatti Gaime Pintor chiamò argutamente il gruppo dei comunisti “il governo di Ventotene”. I confinati avevano saputo organizzarsi con numerose imprese comunitarie quali biblioteche, spacci e negozi, mense. Le mense erano divise per appartenenza politica, diversamente da quanto era avvenuto nelle altre isole confinarie dove l’aggregazione era stata per lo più geografica. Le mense erano un luogo privilegiato per discussioni, commenti e riflessioni politiche. A Ventotene i confinati possedevano una fornitissima biblioteca con testi d’economia, storia, filosofia, letteratura italiana e straniera, saggistica, e accanto a quell’ufficiale custodivano una preziosa biblioteca clandestina a cui potevano accedere solo in pochi. In quel periodo a Ventotene si realizzò un’imponente attività di studio, di ricerca, di scambi d’idee e d’esperienze. Non a caso Ventotene è stata definita l’isola-università proletaria, un vero laboratorio politico che ebbe un ruolo fondamentale nella vita sociale della colonia. Di Vittorio naturalmente partecipava a quest’intensa attività culturale, collaborando con altri compagni alla diffusione delle idee e delle notizie fra tutti i confinati. Anzi l’arrivo di Di Vittorio permise ai compagni al confino, lontani ormai da anni dal centro del partito, di venire a conoscenza delle tormentate vicende che avevano caratterizzato la direzione del partito in quegli anni.

Nel 1942 la situazione alimentare sull’isola divenne drammatica. La produzione locale dei legumi si esauriva rapidamente, essendo la maggior parte degli uomini richiamati per la guerra; altrettanto avveniva per la pesca: nel piccolo porticciolo le barche erano quasi tutte in disarmo. Essendo la flotta nazionale in progressivo impoverimento, il piroscafo di linea era spesso dirottato per scopi militari e non riforniva l’isola. Ormai nelle mense si andava avanti con certi minestroni fatti di erbe amare raccolte nei campi e si cucinava con acqua di mare. Il latte non si trovava più, quel poco prodotto era destinato ai bambini e alle donne in gravidanza. I gatti dell’isola sparirono in breve tempo. Per questo alcuni confinati chiesero ed ottennero dal direttore della colonia, di poter coltivare i campi fuori dal limite di confino. Di Vittorio firmò un contratto di fitto per la coltivazione di due ettari e mezzo di terreno, con una famiglia isolana (la famiglia Verde), contratto che sarebbe scaduto nel settembre del 1945. Il terreno, provvisto anche di una stalla e una mucca, fu coltivato soprattutto a legumi. Insieme a Di Vittorio lavoravano Francesco Stoka, Joso Berovic, Battista Santhià, Viscardo Lucchi e Gaetano Chiarini. Di Vittorio era controllato dai militi più degli altri confinati che lavoravano nei campi vicini. Tutto quanto era prodotto nel campo, era messo a disposizione della mensa comunista e soprattutto delle mense degli ammalati. Se alcuni compagni della mensa tubercolotici riuscirono a sopravvivere fu solo grazie al cibo e al latte che Di Vittorio offrì loro generosamente. Dalle testimonianze raccolte presso gli anziani isolani, viene fuori un ritratto di un uomo di grande spessore morale. Di Vittorio s’intratteneva spesso a parlare con il figlio del proprietario del terreno. Il ragazzo appena quindicenne, ricorda che i dialoghi fra loro riguardavano solo le attività agricole che Di Vittorio conosceva bene, mai la politica e dalle sue parole traspariva soprattutto l’amore per la terra e il grande rispetto per il lavoro dei contadini. Ricorda, emozionato, che l’esempio di generosità e umanità che Di Vittorio aveva mostrato nei confronti dei compagni più bisognosi si era rivelato nel tempo, per lui, un’autentica lezione di vita.

Mi piace concludere quest’intervento con il racconto di un episodio relativo alla partenza dei confinati dall’isola dopo il 25 luglio. I confinati rimasero bloccati sull’isola per quasi un mese perché l’unico piroscafo di linea era stato affondato da alcuni caccia inglesi. Riuscirono poi ad affittare un veliero e organizzarono le partenze, per ultimi partirono i comunisti e gli anarchici. Il giorno della partenza di Di Vittorio in tanti discesero le rampe del paese per recarsi al piccolo approdo e tanti i ventotenesi a salutarli, perché in quell’ultimo mese fra le due comunità, isolani e confinati, si erano stretti cordiali rapporti. Tutti erano al porto ma improvvisamente intorno si fece un silenzio teso, preoccupante: era apparso il drappello dei tedeschi (i tedeschi avevano sull’isola un potente aerofono). I soldati scuri in volto fissavano confinati e isolani. I ventotenesi abbassarono i fazzoletti che poco prima sventolavano festosi. Tutti temettero il peggio. Per interrompere il silenzio e la paura il confinato comunista Girolamo Li Causi sollevò il suo enorme cappello e iniziò a cantare l’inno di Mameli, Di Vittorio allora coraggiosamente si sollevò sul muretto delle rampe e con passione e con rabbia, diede forza al canto, tutti risposero in coro. I tedeschi, forse disorientati da tale reazione, si fermarono e poi andarono via. I confinati felici s’imbarcarono a bordo del loro veliero e aggrappati alle sartie continuarono a cantare e a salutare mentre il barcone s’allontanava lentamente. Dopo anni di prigione e di confino finalmente affrontavano quel mare che a lungo era stato il loro guardiano instancabile e che ora finalmente restituiva la libertà. Era il 22 agosto 1943.

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