In ricordo di Paolo Ravazzoli, segretario generale della Cgdl

Introduzione di Carlo Ghezzi, Presidente Fondazione Giuseppe Di Vittorio.

Le celebrazioni per il Centenario della fondazione della Cgil volgono al termine. Hanno rappresentato una straordinaria occasione per offrire al sindacato, ai lavoratori, ai cittadini, agli studiosi, a tutta la società italiana la possibilità di riflettere sulla storia e sul ruolo svolto dal lavoro nel nostro paese, sulla sua organizzazione sociale più importante, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro, sulle persone che la hanno diretta assumendone le maggiori responsabilità.

La Fondazione Giuseppe Di Vittorio, che ha fornito in questo ciclo di studio, di approfondimenti, di ricerche e di celebrazioni il proprio supporto scientifico alla Associazione per il Centenario, ha ritenuto doveroso prima della fine delle celebrazioni stesse di accentrare la sua attenzione su una figura, quella di Paolo Ravazzoli, uno dei massimi dirigenti sindacali frequentemente dimenticato dagli storici così come dalla nostra stessa organizzazione.

Paolo Ravazzoli, operaio dell’oltrepò pavese, è stato segretario generale della CGdL. Ha diretto la confederazione negli anni nei quali questa ha continuato a operare nella clandestinità, a partire dal 1927, dopo che il gruppo dirigente nazionale aveva accettato lo scioglimento ufficiale dell’organizzazione imposto dal fascismo. La direzione di Ravazzoli è continuata fino al 1930 quando, a seguito dei dissensi espressi sulla linea decisa dalla Terza Internazionale, è stato espulso dal Partito Comunista d’Italia ed estromesso dalla guida della CGdL.

Abbiamo affidato a un giovane storico, Francesco Giasi, una prima ricerca su di lui che siamo lieti di pubblicare. E’ intenzione della Fondazione ampliare e approfondire in futuro tali approfondimenti, così da poter dare adeguato rilievo alla figura umana e politica di Paolo Ravazzoli e alla sua opera svolta nel sindacato e nella sinistra italiana per fare avanzare la democrazia e i diritti dei lavoratori.




PAOLO RAVAZZOLI, SEGRETARIO DELLA CGDL
 

"Il 1° novembre [1926] la sede confederale fu invasa e devastata per la terza volta dalle camicie nere. Poi intervenne l’autorità di Pubblica Sicurezza ad apporre i sigilli alle porte. La sede rimase chiusa circa tre settimane, cioè fin quando l’autorità stessa riconsegnò le chiavi all’amministrazione, dichiarando che l’associazione non era sciolta.
Il Consiglio Direttivo rifletté lungamente sul da farsi, ma alla fine dovette convincersi che in quella situazione la Confederazione non avrebbe più potuto continuare a svolgere la sua funzione e ne decise lo scioglimento. Così ai primi di gennaio del 1927 ebbe luogo l’ultima seduta del Consiglio e cessò in Italia l’ultimo residuo del movimento operaio libero".

Così nell’immediato dopoguerra Rinaldo Rigola, nella sua Storia del movimento operaio italiano, motivò lo scioglimento della CGdL deciso nell’ultima riunione del Consiglio direttivo tenuta a Milano il 4 gennaio 1927. In una lettera dell’agosto del ‘47 ad Alessandro Schiavi, ancora Rigola ricordò come dopo le restrizioni successive all’attentato Zamboni fosse maturata nei dirigenti rimasti in Italia la proposta di trasformare la CGdL in una associazione di studio sui problemi del lavoro per “continuare quell’azione di assistenza morale al proletariato che la Confederazione svolgeva sin dal giorno in cui era stata privata, in seguito al patto Vidoni, del diritto di stipulare contratti di lavoro con gli imprenditori”. Le testimonianze di Rigola si riferiscono all’impossibilità della Confederazione di operare in condizioni proibitive e a questo effettivamente accennava anche il comunicato con cui il Consiglio direttivo annunciò lo scioglimento della CGdL:
"Il Consiglio Direttivo della Confederazione Generale del Lavoro, convocato il 4 gennaio 1927 presso la sede centrale di Milano, dopo aver preso conoscenza del rapporto sulla situazione delle organizzazioni professionali, delle sedi delle rappresentanze locali, e tenuto conto delle opinioni espresse dal personale dirigente; constatato che l’esperienza d’una organizzazione sindacale di fatto, autorizzata dall’art. 12 della legge 3 aprile 1926, n. 563 e sottoposta alle altre leggi di polizia e di controllo, è fallita, e che è impossibile procedere alla distribuzione delle tessere per il 1927, dichiara che cessa di funzionare e incarica il Comitato Esecutivo di procedere alla liquidazione della Confederazione Generale del Lavoro".

Le leggi eccezionali fasciste di novembre colpirono ufficialmente i partiti antifascisti e non le organizzazioni sindacali. Ma la legge sindacale dell’aprile del ‘26 aveva già svuotato completamente le funzioni delle organizzazioni sindacali non fasciste; la CGdL era priva da due mesi del proprio organo di stampa (“Battaglie sindacali”); le camere del lavoro non operavano più da circa un anno in nessuna città; la totalità delle organizzazioni di categoria era inattiva; il quadro dirigente nazionale non era da tempo in grado di svolgere attività sindacale in Italia; Buozzi – segretario generale eletto nel dicembre 1925 in seguito alle dimissioni di Ludovico D’Aragona – era emigrato a Parigi; la stretta finale del regime aveva costretto all’esilio o condotto in carcere e al confino gran parte del gruppo dirigente socialista e comunista attivo nelle organizzazioni sindacali centrali e periferiche; la vigilanza della polizia, l’attività repressiva legale ed extra-legale del regime impedivano da tempo qualsiasi attività a una organizzazione già ridotta allo stremo delle forze dopo il 1922-23. Durante i giorni dell’occupazione della sede confederale di via Manfredo Fanti, ai primi di novembre del 1926, D’Aragona – stando a una nota confidenziale inviata al Ministro dell’Interno – si augurava che non ci fosse il dissequestro anche per dimostrare nel modo più evidente la assoluta impossibilità di svolgere attività sindacale in Italia:
"Potremo così senza tema di smentita, dichiarare che, nell’Italia Monarchica e Costituzionale, non vi sono associazioni; non si può pensare diversamente dal governo; non è lecito pubblicare giornali, né quindi esercitare il diritto di critica; le popolazioni sono soggette a tutte le angherie di speciali polizie; non vi è diritto di riunione; non esiste neppure il diritto di tutela dei propri interessi, se non venga affidato a persone non favorevoli al proprio pensiero politico e così via".

Le cose andarono in maniera opposta. Restituita la sede confederale, i dirigenti chiamati a decidere sulle sorti della CGdL capitolarono e diedero allo scioglimento il significato di una resa incondizionata.
Buozzi, invece, a Parigi si era già attivato da diverse settimane per il “trasloco” della CGdL e stava lavorando in tal senso con Giovanni Bensi, Felice Quaglino, Pallante Rugginenti e Giuseppe Sardelli. In contatto con la Confédération Générale du Travail, il gruppo parigino aveva dato vita al Segretariato degli operai italiani ritenendo opportuno innanzitutto cominciare lavorare per garantire assistenza ai lavoratori emigrati. Il settimanale “L’Operaio italiano”, che aveva iniziato le sue pubblicazioni nell’aprile del 1926, funzionava come mezzo di propaganda antifascista per tutto il gruppo dei riformisti fuoriusciti. L’idea di Buozzi era quella di far funzionare la CGdL all’estero senza decretarne lo scioglimento in Italia. Trasferimento quindi e non “liquidazione”. Ma i rapporti tra Buozzi e il gruppo di Rigola si deteriorarono definitivamente quando fu chiara la volontà collaborazionista degli ex membri del direttivo confederale. Dopo una serie di contrasti (non ancora sufficientemente documentati) tra Buozzi e i membri del direttivo rimasti in Italia, da Parigi venne una risposta ufficiale pubblicata il 30 gennaio in cui si annunciava il trasferimento del Comitato esecutivo confederale all’estero “per continuare la propria attività conformemente al mandato affidatogli dagli operai italiani”; il Comitato esecutivo considerava non vincolanti (“in nessun modo”) le decisioni prese in Italia, per quanto giustificabili data la situazione esistente nel paese, e rendeva noto un accordo con la FSI che avrebbe portato al riconoscimento della CGdL di Parigi.
Ma il documento che determinò la definitiva rottura all’interno del vecchio gruppo dirigente che aveva guidato la CGdL per un ventennio non fu la dichiarazione del 4 gennaio. O meglio non solo quella. Il 2 febbraio l’agenzia Stefani rese nota una dichiarazione firmata da Carlo Azimonti, Lodovico Calda, Emilio Colombino, Ludovico D’Aragona, Ettore Reina, Giovan Battista Maglione e Rinaldo Rigola che suonava come una vera e propria abiura. La dichiarazione conteneva una esplicita adesione alla politica sindacale del regime che assunse il significato di una definitiva capitolazione:
"Il regime fascista è una realtà e la realtà va tenuta in considerazione. Questa realtà è scaturita anche da principi nostri, i quali si sono imposti.
La politica sindacale del fascismo, per esempio, si identifica sotto certi riguardi con la nostra. [...] Il regime fascista ha fatto una legge altamente ardita sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro. In quella legge vediamo accolti dei principi che sono pure nostri.
Finché durava lo Stato liberale, da una parte, e finché dall’altra gli operai rimanevano fermi nel loro misconoscimento dello Stato, una legge di tal fatta era improponibile. La Rivoluzione fascista ha tagliato il nodo gordiano, e noi ne dobbiamo prendere atto".

Il documento generò sconcerto tra gli antifascisti rimasti in Italia; immediata fu la reazione indignata di Buozzi e dei fuoriusciti socialisti; violentissima fu la campagna di stampa avviata dai comunisti sull’“Unità”. Gli esponenti del partito socialista condannarono il documento pubblicando una serie di articoli su “L’Operaio italiano” che avviò una durissima campagna di stampa contro i sette. La dichiarazione degli ex-confederali venne pubblicizzata nelle settimane in cui il fascismo portava a termine l’ultima dura azione repressiva contro tutti i partiti politici e contro i dirigenti antifascisti. Lo sconcerto fu determinato anche dal fatto che proprio Rigola aveva sostenuto posizioni chiaramente antifasciste sino alla viglia della pubblicazione del documento. Il giorno dopo la riunione del 4 gennaio, aveva inviato una lettera a Parigi indirizzata a Felice Quaglino in cui si davano ampie rassicurazioni circa gli orientamenti di chi aveva deciso lo scioglimento: “Con la deliberazione presa ieri la Confederazione è da considerarsi sciolta. Lo scioglimento era inevitabile e, secondo me, anche augurabile per evitare ogni pericolo di patteggiamenti e compromessi che si sarebbero potuti verificare. La bandiera viene consegnata all’internazionale incontaminata [...] si tratta di svolgere una azione indipendente da quella delle corporazioni fasciste. Quindi né inserimenti, né stipendi dal movimento ufficiale, ma azione libera limitata al campo dello studio. Abbiate fiducia in me”. Dopo la pubblicazione del testo della dichiarazione l“Avanti!” definì Rigola, D’Aragona, Maglione e Colombino “raffinati professionisti del tradimento”, prendendo nettamente le distanze dalla associazione di studio fondata dagli ex-confederali.
I comunisti, invece, dovettero fare i conti con il più inequivocabile inveramento della loro tesi – sostenuta dal 1920 in poi – intorno al “tradimento” dei capi confederali. Se per “L’Operaio italiano” si trattava di “abiura”, per i comunisti ci si trovava di fronte all’epilogo di una involuzione che essi avevano in tutti i modi cercato di contrastare. Le critiche investirono i liquidatori, ma anche tutto il raggruppamento socialista-riformista. Si aprì così una lunga battaglia per raccogliere l’eredità e il nome della CGdL; dati i rapporti fra i due partiti erano prevedibili le difficoltà per giungere a un accordo che rivedesse socialisti e comunisti in una nuova, rinata confederazione.
Già il 1° gennaio 1927 – prima della dichiarazione di scioglimento – Camilla Ravera, membro dell’Ufficio politico del PCdI, aveva comunicato a Togliatti e Ruggero Grieco l’intenzione di lanciare immediatamente un manifesto e di avviare il lavoro per la ricostituzione della Confederazione: “Qualora risultasse ben certo che la CGL (ciò che appare la cosa più probabile) rinuncia ad ogni lavoro organizzativo e di reclutamento, io penso che si possa fare un manifesto di partito in cui si denuncia questo atteggiamento dei capi confederali, si richiamano gli operai a tutelare la vita e gli interessi della loro organizzazione, a ricostituire le file della CGL in modo da ricostruirne le forze e darle una capace e degna direzione [...]. In un primo tempo [...] il nostro lavoro sindacale dovrebbe soprattutto avere il carattere di un’azione di propaganda e di agitazione sindacale classista, più che di stretta organizzazione”. In questo senso si mosse il gruppo dirigente comunista rimasto in Italia. Il 5 febbraio l’“Unità” clandestina uscì con articoli di condanna che annunciavano che la Confederazione sopravviveva al tradimento e che veniva restituita finalmente agli operai e alla rivoluzione:
"Il diritto sindacale occorre conquistarselo, e riconquistarlo quando si è perduto. Le difficoltà che derivano dalla situazione, l’esistenza di una proibitiva legislazione fascista, i maggiori sacrifici imposti dalla lotta non getteranno gli operai nella inerzia e nella passività, perché gli operai si rifiutano di accettare il presente stato di cose, vogliono superarlo. Quando le vostre camere del lavoro caddero ad una ad una, parve a taluno come l’organizzazione fosse morta. Ma i nuclei vitali del movimento sindacale continuarono a vivere; perché il sindacato non è un edificio di mattoni, ma un organismo vivente della vita delle masse. Oggi, che insieme con i vostri nemici, i vostri capi tentano di far crollare la vostra massima organizzazione, voi affermerete che la Confederazione generale del lavoro vive, che la deliberazione di coloro che furono i vostri dirigenti non ha alcun valore, che essa non è stata sanzionata da voi e non lo sarà mai".

Non c’erano state ancora, però, fino a quella data, precise istruzioni sul da farsi. Quindici giorni dopo – il 20 febbraio – venne convocato a Milano un convegno clandestino (in una fabbrica di specchi di via Porta Vigentina) presieduto da Paolo Ravazzoli. Il convegno venne indetto dalle tre federazioni di categoria a maggioranza comunista: la Federazione lavoranti in legno, la Federazione albergo e mensa e la Federazione impiegati privati. L’invito fu esteso a singole personalità del movimento sindacale (sia anarchici sia socialisti), con il preciso intento di ricostituire una struttura confederale capace di operare con un “centro dirigente” in Italia. Alla riunione parteciparono circa trenta sindacalisti in rappresentanza delle principali categorie: chimici, edili, metallurgici, trasporti, alimentaristi e di alcune importanti camere del lavoro (Milano, Torino, Genova, Bologna, Napoli, Roma, Trieste, Bergamo e Vicenza). La discussione si concluse proclamando rinata la Confederazione generale del lavoro. Comunisti e socialisti che avevano convissuto nella CGdL dal 1921 al 1926, nonostante posizioni molto lontane, diedero così vita a due diverse organizzazioni che avrebbero portato a lungo lo stesso vecchio, glorioso nome.
La CGdL clandestina fu diretta dal momento della fondazione sino al 1930 da Ravazzoli. Figura tipica di dirigente sindacale e politico proveniente dalle file della classe operaia, Ravazzoli si era distinto come uno dei quadri operai più promettenti del gruppo dirigente alla guida del PCdI dopo l’elezione di Gramsci a segretario generale del partito. Nato nel 1894 a Stradella, in provincia di Pavia, aveva lavorato da giovanissimo a Milano come tornitore meccanico. Iscrittosi al Partito socialista italiano aveva aderito alle posizioni della sinistra bordighiana; dopo la fondazione del PCd’I, eletto membro della direzione della federazione milanese, si occupò principalmente di questioni sindacali entrando a far parte del Comitato sindacale comunista in nome del quale intervenne al Consiglio nazionale della CGdL tenutosi a Genova nel luglio del 1922. Dopo la Marcia su Roma espatriò in Unione Sovietica, recandosì poi a Billancourt, nel nord della Francia, dove poté lavorare come meccanico. Rientrato in Italia nel 1925, aderì da subito alle posizioni del gruppo dirigente gramsciano staccandosi definitivamente dalla frazione bordighiana. Gli fu chiesto ben presto di assumere la direzione del partito a Milano per contrastare le posizioni espresse dalla ex-maggioranza capeggiata da Bruno Fortichiari. Nel gennaio del 1926, al III Congresso del PCdI di Lione, che sancì la definitiva vittoria di Gramsci, entrò nel Comitato centrale e nel Comitato esecutivo del partito. Durante il 1926, quando ormai i margini per l’attività legale erano ridotti al minimo, Ravazzoli (Lino o Santini) fu impegnato nel Comitato sindacale comunista nel tentativo di dar vita a cellule per la propaganda e l’attività sindacale nelle febbriche. La promulgazione delle leggi eccezionali fasciste lo costrinsero alla completa illegalità anche a causa di un mandato di arresto poi sfociato in una condanna in contumacia. Nonostante fosse ricercato si impegnò nella costituzione di un ufficio sindacale centrale con sede a Milano che affiancò in quel periodo l’attività della segreteria del centro interno che trovò sede a Genova.
Con la dichiarazione di ricostituzione della CGdL fu eletto segretario del Comitato direttivo provvisorio. Con un primo numero datato 15 marzo 1927, iniziarono anche le pubblicazioni dell’edizione clandestina di “Battaglie sindacali”, organo della Confederazione generale del lavoro, alla cui redazione lavorò con Pietro Tresso, Camilla Ravera, Alfonso Leonetti, Girolamo Li Causi e Ignazio Silone.
In qualità di segretario della CGdL clandestina si recò a Parigi nel luglio del 1927 chiedendo l’adesione della rinata confederazione alla Federazione sindacale internazionale. Il riconoscimento accordato dalla FSI alla CGdL di Buozzi aprì una nuova stagione di polemiche fra comunisti e socialisti, dopo vari tentativi di compromesso per la fusione tra le due organizzazioni. La vita della CGdL in Italia si rivelò inoltre ben presto impossibile. Dopo una intensa attività agitatoria svolta nel corso dei primi mesi del ’27, favorita dai numerosi scioperi che si verificarono in molti centri industriali del Nord contro la riduzione dei salari, il tentativo di radicare strutture candestine nelle fabbriche fu fortemente limitato dall’azione repressiva e dall’uso sistematico delle denunce e dei licenziamenti. Centinaia di arresti di dirigenti e militanti paralizzarono gli apparati illegali che dovettero conseguentemente limitare al minimo la loro attività. Nel novembre del ’27 anche Ravazzoli – sino ad allora rimasto in Italia con Tresso, Secchia e Silone – si trasferì in Svizzera dove il partito aveva già portato la segreteria del centro interno. L’attività della segreteria della CGdL si limitò alla pubblicazione di “Battaglie sindacali” e a favorire l’uscita di alcuni giornali clandestini (come “La Difesa” e “La Risaia”), alla diffusione di opuscoli, volantini, manifesti (stampati anche in decine di migliaia di copie), senza che vi fosse la possibilità di operare per un effettivo radicamento dell’organizzazione sindacale clandestina nelle fabbriche.
La teorizzazione da parte dell’Internazionale comunista del cosidetto “terzo periodo” (dopo l’ondata rivoluzionaria successiva alla Grande Guerra e dopo la successiva stabilizzazione relativa del capitalismo) aprì la strada, nel 1928, alla “svolta” che avrebbe dovuto impegnare i comunisti nella lotta sia contro i partiti della borghesia sia contro i partiti socialisti. La previsione di una radicalizzazione della lotta di classe e di una conseguente ondata rivoluzionaria alimentarono il dibattito in senso ai partiti comunisti per tutto il perido 1928-1930. I rapporti tra PCdI e Comintern si complicarono da subito a causa delle posizioni assunte da Tasca e poi in diversa forma anche da Togliatti, Grieco e Di Vittorio contro l’estremizzazione delle tesi a sostegno della “svolta”. Il partito italiano fu messo sotto accusa e sotto la spinta delle pressioni provenienti da Mosca iniziò una divaricazione di posizioni che portò ad una profonda rottura all’interno del gruppo dirigente comunista. Già alla fine del 1928 Ravazzoli aveva eprimesso proprie posizioni a proposito della “svolta”, dando una lettura non schematica della crisi e dei rapporti fra borghesia e socialdemocrazia. Dopo l’allineamento di Togliatti e l’espulsione di Tasca, Ravazzoli insieme a Tresso e Leonetti criticò l’accettazione della politica del “socialfascismo” e il progetto che prevedeva il trasferimento di tutto l’apparato del partito in Italia in vista di una imminente crisi rivoluzionaria. L’opposizione dei “tre” non si incentrò solo sul problema organizzativo, ma mise in discussione l’impianto teorico che giustificava la “svolta” a sinistra. I contrasti si rivelarono insanabili e spinsero gli oppositori ad attaccare apertamente l’atteggiamento oscillante tenuto da Togliatti.

Ravazzoli estromesso dalla direzione del lavoro sindacale, fu espulso nel giugno del 1930 e aderì insieme a Tresso e Leonetti all’opposizione internazionale di ispirazione trotskista dando vita ad una organizzazione autonoma denominata Nuova opposizione italiana (Noi). Da quel momento, sino al 1934, l’attività politica di Ravazzoli si svolse dentro le organizzazioni trotskiste da cui si distaccò progressivamente, avvicinandosi a Giustizia e Libertà, sino ad aderire nel 1935 al PSI. Tra speranze e disillusioni trascorse a Parigi la sua vita di esule, riducendo via via il suo impegno politico. Dopo l’espulsione dal PCdI aveva ripreso a lavorare come operaio meccanico nelle officine della Renault. Morì il 27 febbraio del 1940 in seguito ad una infezione contratta in un incidente sul lavoro.

Francesco Giasi, storico, collaboratore della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.

 

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