La scelta di un giovane, di Marco Galeazzi

E' stato presentato lo scorso 9 ottobre del 2008, al Liceo Morgagni di Roma il “Diario di guerra” di Bruno Trentin.  Ora pubblichiamo qui l'intervento di Marco Galeazzi.

Il “Diario di guerra” fu scritto tra il 22 settembre e il 15 novembre 1943 da Trentin, allora non ancora diciassettenne, ed è rimasto per 65 anni in un cassetto. Marcelle Padovani, sua moglie, che lo ha scoperto casualmente, ha definito questo quaderno nero , pieno di appunti in francese, un libro “bello da vedere” e” commovente da leggere”. E in effetti ho provato commozione nello scorrerne le pagine. Si tratta di un un documento prezioso, che testimonia con grande forza l'itinerario di una generazione chiamata a misurarsi con la guerra. Una generazione che scelse, assunse delle responsabilità. L'esperienza di Trentin è analoga a quella di altre figure chiave della vita politica e culturale italiana del Novecento. Penso a  Renato Serra  e al suo “Esame di coscienza di un letterato” del 1915; a  Giaime Pintor, il quale, quasi negli stessi giorni in cui Bruno redigeva il suo diario, ansioso di passare all'azione, si congedava dal suo mondo con la celebre lettera del 28 novembre 1943 al fratello Luigi per tentare la difficile impresa di unirsi ai partigiani, trovando la morte pochi giorni dopo. Tre figure di intellettuali ( ma ve ne sono molte altre) che scelsero di rinunciare ai propri privilegi per l’interesse generale, per la libertà di tutti.

Bruno Trentin era un intellettuale  per gusti e formazione. Suo padre, Silvio Trentin, fu una straordinaria figura di antifascista. Esiliato nel 1926 in Francia dopo il varo delle “leggi fascistissime”, fu tra i principali esponenti  di  “Giustizia e Libertà” e poi del Partito d'Azione. Nella Francia di Vichy diede vita al movimento “Libérer et federer”ed elaborò un progetto di costituzione italiana in senso federalista. Assieme a Lussu, Spinelli, Foa, Valiani, fu tra i protagonisti di quella rivoluzione antifascista che vide protagonisti, pur tra profonde differenze,  gli azionisti e i comunisti.

Assai forte era il legame tra padre e figlio, che vissero un' esperienza comune in Francia e poi in Italia. Il loro rapporto fu “fisiologicamente” conflittuale, per poi divenire uno scambio costante, sino alla morte di Silvio, all'inizio del 1944. Bruno , nato in Francia, sentiva quel paese come il proprio: il “Journal de guerre” era scritto in francese e Bruno fece un patto col padre, decidendo di tornare a vivere in Francia dopo la fine della guerra. Anche se le vicende della vita fecero sì che le sue scelte fossero diverse. Su Bruno fu determinante l'impatto della guerra di Spagna. Quell'evento avrebbe spinto molti giovani, cresciuti sotto il fascismo e che presero parte ai GUF  e ai Littoriali, a scegliere la via della lotta armata e della clandestinità. Era inoltre viva, nel giovanissimo Bruno, l'influenza del comunismo libertario di Kropotkin, che lo spinse a dar vita a un movimento anarchico, sino a determinarne l'arresto da parte del governo di Pétain. Padre e figlio insieme rientrarono in Italia e sin dall’8 settembre si impegnarono per sviluppare al Nord, senza successo, la mobilitazione antifascista. Passarono alla semiclandestinità e poi alla clandestinità piena, dall'ottobre 1943.

Il “Diario” esordisce con le parole della “Marsigliese” e dell'”Internazionale”, il che spiega i principi cui Trentin sarebbe rimasto fedele per tutta la sua vita. Giorno per giorno, Bruno ritaglia giornali e fornisce una descrizione puntuale delle fasi della guerra in Italia, in Europa, ma anche dell'evoluzione militare e politica in Medio Oriente, in Africa, nel Pacifico. Costante è lo sguardo rivolto al popolo italiano, nei cui confronti egli esprime una iniziale sfiducia, poi mutata nella consapevolezza della rinascita del sentimento nazionale.

Bruno mostra fiducia nel ruolo di Sforza, anch'egli esule, amico della famiglia Trentin: Sforza è considerato come il più probabile capo di un governo che possa condurre l'Italia alla democrazia, senza che peraltro Bruno si illudesse sulle capacità dell'uomo politico. Ferma è la critica alle ipotesi di compromesso con la vecchia classe dirigente. Ogni ipotesi di accordo con gli esponenti del vecchio regime è respinta in modo netto dal giovane Trentin, che sarà chiamato a misurarsi con la “svolta di Salerno”, sulla quale la storiografia non ha mai smesso di dividersi. Ha fiducia nella rapida avanzata degli Alleati dalla Sicilia e da Anzio fino a Roma: la liberazione di Roma gli appare la premessa irrinunciabile del riscatto del paese dal ventennio fascista. Duro è il giudizio sulla lentezza degli Alleati, che aveva due spiegazioni: l'imprevista resistenza delle truppe tedesche e – soprattutto – l'ostilità nei confronti della Resistenza. Gli angloamricani si opponevano all'ipotesi di una rinascita dei partiti antifascisti, paragonati da Churchill allo strofinaccio che serve per reggere la caffettiera ( l'Italia). Un' Italia che, dopo l'8 settembre, era ridotta  a un' “espressione geografica”, come ha scritto Barbagallo.

Trentin, nelle pagine del Diario, esprime la convinzione della imminente crisi del capitalismo, sulle cui macerie si sarebbe edificata una società socialista. Ha fiducia nell’Armata rossa e nel ruolo della rivoluzione d’Ottobre. A tale proposito Goffredo Bettini ha parlato del “candore” e dell' “ingenuità” di Bruno, che non sapeva nulla delle purghe staliniane e non poteva immaginare   cosa sarebbe divenuta l'URSS negli anni e nei decenni successivi.  Vero. Ma non si può dimenticare il significato che la battaglia di Stalingrado ebbe nell'immaginario collettivo e come momento di svolta della guerra. Senza la battaglia di Stalingrado e senza il sacrificio di milioni di russi gli esiti del conflitto sarebbero stati più incerti e più lontana la sconfitta del nazifascismo. Per capire la storia bisogna collocare i miti, gli ideali, gli avvenimenti, gli individui e i popoli nel loro contesto. Nel 1943 essere comunisti, avere il mito dell'URSS era lecito, del tutto comprensibile. L'esperienza storica del comunismo esercitò un indubbio fascino su milioni di uomini, non mancando di contagiare anche leader politici e intellettuali liberali e democratici. Qui è la “felix culpa” dei partigiani, di cui parla giustamente Sergio Luzzatto.

Il Diario non è  intimo, non è un un racconto di un cammino interiore: in esso è dominante  il richiamo all’azione. Fortissima è l' insofferenza di Bruno per la forzata inattività, l'attesa del momento di impegnarsi. In tale dato è il valore della Resistenza, che Calvino ha definito una  “primordiale dialettica di morte e felicità”.

L'8 settembre non fu la “morte della patria”, come titola un fortunato quanto superficiale pamphlet di Galli della Loggia, secondo il quale i partiti cattolico e comunista si sarebbero appropriati indebitamente dell'antifascismo. Quale patria era morta? Quella dei Savoia, nei cui confronti Bruno si esprime con sdegno? In realtà, il sentimento nazionale e patriottico rinasceva. La Resistenza fu anche guerra civile, ma di essa va sottolineato l'alto valore morale e politico. Claudio Pavone, autore del più importante libro sulla Resistenza, ha sostenuto – cito a memoria - che con essa tutto ricomincia. Erano vivissime la voglia di vivere e la fiducia nell’avvenire nei “piccoli maestri”, come li ha definiti Luigi Meneghello. La violenza fu per quei giovani una dolorosa necessità, una scelta estrema: necessaria per combattere il fascismo e il nazismo, ma non amata da chi passò due inverni in montagna. Anche Bruno non la amava. Se non si capisce questo e si pensa ai partigiani come individui che amavano le armi e la violenza, si commette un grave errore di comprensione della storia. Quei ragazzi -  Marisa Musu, Carla Capponi, Aldo Natoli, Franco Calamandrei, Eugenio Curiel - avevano un progetto, per sé e per l'Italia La rivoluzione la fanno le minoranze, scriveva Pintor. Tali furono il PdA e il PCI, che seppero diffondere il sentimento nazionale, la volontà della ricostruzione e il patriottismo costituzionale nelle masse popolari, contribuendo a trasformare i sudditi in cittadini. Tutto ciò è ignorato nel mediocre dibattito in corso da anni nel nostro paese: un dibattito mediatico che,  cristallizzando il presente e rimuovendo il passato, vuole cancellare l’antifascismo e insidiare la stesa Costituzione repubblicana.

In Bruno era assai viva l' eredità del Risorgimento. Il ricordo del Piave e della battaglia di Guadalajara facevano da sfondo alla lotta per la libertà. Uguaglianza giustizia e libertà convivevano nel suo percorso umano e ideale: quale viene prima? Forse nel giovane Trentin era prevalente l' ideale egualitario, diversamente dal padre. Allora il confronto, e lo scontro, generazionale era più forte. Vi erano dei padri con cui confliggere, dialogare. Oggi -si è chiesta la psicoanalista Simona Argentieri - con quali padri si può misurarsi?

Nei giovani di allora fu decisiva la scelta.  I morti sono tutti uguali, e tutti meritevoli di rispetto. I vivi no. Nel 1943, da un lato, erano i Trentin, i Pintor, gli Ingrao; dall’altro, coloro che si schierarono con i nazisti, con l'oppressione, con il primato della razza . Tale dato dovrebbe sottendere l' ambigua riscoperta dell’antifascismo da parte degli eredi del fascismo, senza che di quell’esperienza  si sia fatto il dovuto esame, storico e politico.

Chi fu dunque Bruno Trentin? Non solo un sindacalista legato al “particulare”, attivo nelle contrattazioni e nelle lotte salariali, ma uomo preoccupato del destino degli altri uomini, dell’interesse generale, con uno sguardo costantemente volto al futuro. Due cose che oggi sembrano assenti.

“Tempo perduto. All’opra”: così Bruno conclude il diario, animato dalla voglia di agire, sperare, di essere liberi, di essere felici. Di guardare al futuro che è vostro. Oggi quel tempo è lontano, sono venuti meno i miti collettivi del 1943-45.  Non dunque restare prigionieri del passato: non si può contemplarlo, rimpiangerlo o condannarlo, ma è necessario conoscerlo per costruire il futuro. In tale senso, io non vorrei avervi spinto a nostalgie o, peggio, al fastidio di narrazioni archeologiche. Oggi può forse sembrare assurdo parlare di patria e antifascismo in un mondo che dovrebbe aver superato le patrie e gli egoismi nazionali; il razzismo e il comunismo dovrebbero essere collocati nel loro tempo. Ma invece il razzismo è ancora diffuso e il comunismo serve ad alcuni per attaccare gli avversari, ad altri per negare le proprie origini e rifarsi una verginità, da spendere sul piano della politica. Se posso darvi un sommesso consiglio: diffidate degli uni e degli altri, che vi vogliono negare la libertà, rendervi indifferenti o rassegnati, in un'Italia diversa da quella “gaudente e volgare” di cui parla Procacci, il grande storico recentemente scomparso, nella sua “Storia degli italiani”. L'Italia attuale è certo meno gaudente di quella del 1964, ma forse più volgare.

Contro tali insidie è il messaggio di Bruno Trentin, l'intera sua affascinante esperienza di vita
Dal diciassettenne di allora ai giovani di oggi: siete soli, esposti, non fortunati, ma non cinici:. Siete diversi da noi cinquantenni, né migliori né peggiori. Avete altre capacità altri sogni. Ma  avete diritti che sono spesso negati. “I figli devono educare i genitori” ha scritto Franco Calamandrei. Può darsi. Ma essenziale è la fiducia in voi. Aver fiducia nei giovani perché essi abbiano fiducia in se stessi. E possano realizzare l'utopia nella vita quotidiana, per usare il felice ossimoro di Trentin. Che è anche – credo - il senso profondo del diario e della vita tutta di questo protagonista della seconda metà del Novecento italiano ed europeo