Il paradosso che continua, Renato D'Agostini

Se una fattucchiera gli avesse detto: morirai per una caduta dalla bicicletta lui avrebbe riso, a modo suo, guardandola con ironia. Come di fronte a un qualsiasi paradosso. Pensieri che si agitano confusi davanti al feretro di Bruno Trentin in quel palazzo di Corso Italia, a Roma, dove ha passato buona parte della sua vita. E viene da sorridere perché Trentin amava i paradossi. Un dono di famiglia. Un giorno ad Auch, in Guascogna dove la famiglia viveva nei primi anni '30 del Secolo breve, Emilio Lussu accompagnò la madre Beppa a prenderlo a scuola: 'Bruno (aveva 6-7 anni) , un po’ imbarazzato , disse alla madre che per una serie di fatti particolari di cui non ricordo più la natura, era stato il terz'ultimo della classe. La madre ne rimase sorpresa, perché un fatto simile non era mai accaduto, e anche addolorata, non solo per se stessa ma per la reazione che ne avrebbe avuto il padre. Il ragazzo si adoperò per confortarla, pregandola di pensare ai genitori di un suo compagno, che, poveretto, era stato l'ultimo. Quando la signora Beppa ne informò il marito, ripetendo scrupolosamente, seria e protettiva, le giustificazioni del figlio Trentin (Silvio, il padre), esplose in una lunga risata'.



Tanti anni dopo nella sua stanza si discuteva di come intervenire con il settimanale della confederazione in occasione di un'importante scadenza sindacale, entrò Fausto Bertinotti e i due cominciarono a discutere. Erano i primi anni '90, si parlava di crisi delle ideologie e della politica. Bertinotti sosteneva con calore, come sa fare lui, l'importanza del senso di appartenenza al partito come al sindacato. Non so perché sfuggì dal seno l'osservazione: anche la mafia è appartenenza. Trentin sfoderò il suo sorriso e annuì. E ancora: appena insediato alla segreteria della Cgil volle promuovere un gruppo di lavoro per redigere il programma della Cgil. Chi scrive, allora direttore di Rassegna sindacale, fu chiamato con il compito di redattore. Le riunioni stentavano a partire, i tempi si allungavano, Trentin chiamò il redattore e gli disse di stendere una bozza del programma. Questi, sbalordito, eseguì. Fu convocata una segreteria, presentata la bozza. Era il punto di partenza per la Conferenza di programma di Rimini che nel 1989 sancirà la svolta della Cgil come sindacato dei diritti e della solidarietà.

Questo era Trentin, ostinato, fermo nelle sue convinzioni, ma sempre pronto a cogliere in ogni situazione, in ogni ragionamento le verità meno evidenti, oltre i limiti del luogo comune. Dopotutto non è questo che rivelano i paradossi?

Non era persona facile, parco di parole ma allo stesso tempo capace di interventi fiume perché sentiva come un dovere rispondere anche all'ultimo dei delegati nelle assemblee sindacali. Rispettato da tutti, amato da molti ma anche circondato da diffidenze e incomprensione da parte di chi vedeva con qualche sospetto il suo percorso politico dal Partito d'azione al Pci (lo ricorda Rossana Rossanda), di chi viveva con fastidio la sua caratura intellettuale.

Accadde che un dirigente della Cgil sfidò Rassegna sindacale a pubblicare una sua lettera nella quale, dopo a una serie di critiche al gruppo dirigente nazionale, concludeva ponendo l'esigenza della sostituzione 'di un ceto politico-sindacale oligarchico composto da troppi intellettuali illuminati'. La lettera fu pubblicata e Trentin volle rispondere. Innanzitutto nel merito delle critiche e, dopo aver invitato il sindacalista ad esercitare la sua funzione di dirigente promuovendo un voto di sfiducia al gruppo dirigente nazionale, a partire dalla sua organizzazione, non risparmiò un finale sarcastico: 'leggere qualche libro fa bene; a cominciare magari da una enciclopedia tascabile, per comprendere il significato delle parole(è una scoperta appassionante) e per trovare, se proprio uno ci tiene, gli insulti più appropriati'.

Sì, Trentin era un intellettuale. Una cultura profonda dell'economia, della società e dello stato, era un divoratore di giornali e riviste: chi non lo ricorderà con la sua pipa in bocca, in mano una borsa stracolma e sottobraccio un enorme pacco di giornali? Ha spinto la Cgil fuori dalle secche degli anni Ottanta, l'ha tenuta fuori dall'involuzione del sistema politico. Ha contribuito a ridare al sindacalismo confederale una funzione nazionale, a partire dall'accordo del 1993 senza il quale oggi l'Italia non sarebbe in Europa.

Ha vissuto con sofferenza le vicende del suo partito dove, lasciata la Cgil, era stato chiamato e dove il suo sforzo di elaborazione programmatica è stato soffocato dalle involute dinamiche interne. Lontano da ogni ombra di personalismo, custode geloso della propria dignità ma leale fino in fondo, anche se in aperto dissenso con un gruppo dirigente del quale comunque si sentiva parte. Avrebbe potuto aspirare alle più alte cariche pubbliche, ha voluto essere solo se stesso.

Prima dell'estate scorsa decidemmo che nell'autunno avremmo fatto un servizio a lui dedicato, per il sito del centenario della Cgil. Non gli dissi che intendevo farlo parlare della sua adolescenza eccezionale, del suo rapporto con un padre eccezionale. L'idea me l'aveva inculcata indirettamente lui stesso quando il 13 settembre del 2002, nel ricevere la laurea ad honorem dalla Universita Ca Foscari di Venezia, iniziava la sua lectio doctoralis dicendo: 'Voi potete comprendere la mia emozione, in questo momento, non solo per l'onore che mi fate, forse impropriamente, con questa candidatura, ma per la scelta che avete compiuto di tenere questa riunione nell'aula che porta il nome di mio padre. Sono sempre stato restio a parlare di lui, non cambierò oggi il mio atteggiamento. Voglio soltanto testimoniare che quel poco di valido e di utile che ho saputo produrre nel corso della mia lunga vita, lo debbo interamente al suo insegnamento e al suo esempio; alla sua radicale incapacità di separare l'etica della politica dalla propria morale quotidiana, pagando sempre di persona i propri convincimenti'.

Chissà forse mi avrebbe aperto la porta di quel mondo al cui centro era il padre, accademico, studioso di diritto, ma anche uno dei pionieri del volo che su un fragile biplano fu costretto a bombardare la propria casa di San Donà di Piave occupata dagli austriaci alla fine della Grande guerra. Uno dei maggiori teorici del federalismo, uno dei pochi professori universitari che rifiutarono il fascismo e che scelse l'esilio in Francia.
Gli avrei chiesto della Guascogna dove era nato, della casa di Auch dove il padre lavorava come tipografo per mantenere la famiglia, di Tolosa dove la libreria acquistata dal padre divenne nel periodo della guerra civile spagnola punto di riferimento di intellettuali e di azioni politiche. Dell'attività clandestina dei tanti personaggi, oggi consegnati alla storia ,che varcarono la sua casa. Di come lui così giovane maturò la partecipazione alla resistenza francese prima e poi a quella italiana. Di quando, diciassettenne, nel novembre del 43 raggiunse il padre a Padova. E se è vero che, arrestati dai fascisti, ingoiarono tutte le carte compromettenti. Se davvero il padre, prima di morire, gli dettò un abbozzo di costituzione per una democrazia socialista e federale. Di quel 25 aprile del 1945 a Milano. E poi della sua decisione di entrare nella Cgil e di aderire al Partito comunista

Certo, Trentin non parlava della sua vita privata e, come tanti che hanno vissuto la guerra, non la raccontava tranne che per episodi paradossali. Già, ancora il paradosso. Come quando una volta, giovane capo di brigata partigiana, si trovò di fronte la scena agghiacciante di prigionieri interrati fino alla testa. Per le sue proteste fu trascinato via, pena la morte da 'mano amica'. E gli bruciava ancora quella forzosa ritirata.
Avrei cercato di convincerlo che la sua storia non era solo sua. Oggi è compito della Cgil ricostruire questa vita intensa e il pensiero di un uomo che ha segnato la sua storia e quella del nostro paese.

Rassegna sindacale deve molto a Trentin. Il periodo della sua segreteria ha coinciso con un suo rilancio dopo un lungo periodo di abbandono. Il periodo che va dall''89 al '94 è stato cruciale per questo paese e Trentin mai una volta si è negato per un'intervista, per un suo intervento al di là dei discorsi ufficiali. Dall'insorgere del fenomeno leghista agli eventi dell'89, dalla crisi del sistema politico italiano alle grandi questioni del federalismo, della riforma dello Stato, della criminalità organizzata, dei diritti degli immigrati, dell'unità sindacale fino alle questioni internazionali. Sempre al centro la sua idea del lavoro come realizzazione dell'individuo, della persona centro della società, della società democratica prima dello Stato.

Nel 1993 di fronte a una grave crisi economica della Cgil si prospettò la chiusura di Rassegna, fu il capo della minoranza a sollevare il problema. Come direttore annunciai sul giornale le mie dimissioni non per negare le esigenze della confederazione ma per denunciare il modo in cui si era discusso del giornale della Cgil: in un direttivo dedicato al bilancio. Trentin non intervenne e questo più di ogni altra cosa mi ferì.

Qualche giorno dopo era a Firenze per la manifestazione sindacale contro le bombe mafiose di via dei Georgofili. Ci ritrovammo alla fine soli nell'androne della Camera del lavoro. Non disse nulla. Mi strinse in un abbraccio intenso che non finiva mai. Rassegna ha continuato ad uscire e io quell'abbraccio ancora lo sento addosso.

Renato D'Agostini