Brani scelti di una vita

Ecco i brani tratti da scritti di Bruno Trentin  letti da Massimo Wertmuller durante la conferenza di organizzazione della Cgil.

DA “IL DIARIO DI GUERRA”, SETTEMBRE 1943
22 Settembre 1943
Sono esattamente 14 giorni che il popolo italiano ha preso conoscenza con una gioia trepidante dell’armistizio con le potenze Anglosassoni. Gioia ben presto delusa dall’annuncio dell’occupazione integrale dell’Italia settentrionale da parte delle truppe tedesche. Dall’8 settembre 1943, il nord della penisola vive la più terribile e la più penosa delle tragedie. L’8, mio padre era a casa dei suoceri, mio fratello a casa di amici. Io passeggiavo per caso sulla piazza principale di Treviso (Veneto). Si è radunata una folla confusa e incerta. Corrono delle voci: la Pace... la Pace!... Voci, ma nessuno ne sa niente. Tutto a un tratto, un uomo compare a un balcone e urla: «Italiani! Una grande notizia... Armistizio!... la guerra del fascismo è finita!... Vendetta contro quelli che vi ci hanno trascinato!...». La gente grida di gioia, i soldati si abbracciano, si corre per le strade, si canta. Io, tremante, tesissimo, mi precipito attraverso il dedalo delle viuzze sporche della città bassa. In cinque minuti sono da mio nonno; irrompo nella stanza in cui mio padre sta discutendo con alcuni amici; grido: «Badoglio ha firmato l’armistizio!». Mio padre si alza in piedi, grave, senza inutili esplosioni di gioia; si guardano tutti tra loro... «È la guerra che comincia!»... La guerra vera per l’Italia vera.
Da quel giorno, le nostre volontà: quella di mio padre, di mio fratello e la mia, si sono sforzate di farla, questa guerra, con ogni mezzo.
Il 9 settembre, mio padre va a trovare il comandante della piazza, il generale Coturri. Questi si rifiuta di organizzare la resistenza alle truppe tedesche che avanzano verso Treviso per occuparla. Il 10, un altro generale, tremante di paura, si sottrae. L’11 un terzo generale del «fu esercito italiano» e il prefetto della città non si vogliono compromettere. Paura! Paura! Corriamo di prefettura in prefettura, dall’ufficio dello Stato Maggiore al Municipio. La nostra delusione, la nostra amarezza sono grandi; tutti tremano di paura. Lo sgomento, il panico poco a poco si impossessano della popolazione. Qualche giorno prima, urlavano di gioia. L’11 settembre già tremano per la loro salvezza. I tedeschi si avvicinano a Treviso. I soldati scappano in disordine, buttando le armi, le uniformi, gli ufficiali, in borghese, scappano in macchina attraversando a tutta velocità le vie della città. Di fronte all’impossibilità di organizzare in città una resistenza armata, partiamo a nostra volta per nasconderci in campagna. Comincia in Italia una nuova vita: la vita clandestina.


FRAMMENTODI UNA LETTERA DEL 27 NOVEMBRE 1957 ALLA SORELLA FRANCA, SU GIUSEPPE DI VITTORIO
[...] Sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e - mettendo da parte ogni retorica - nella mia formazione di uomo. Avverto la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre provocatorio, come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni. A volte - spesso negli ultimi tempi - questa forza diventava meno razionale ed ingenua, e più volentieri polemica. Ma anche in questi casi, rimaneva come una esigenza, come un richiamo a un certo linguaggio, fresco e stimolante; come l’affermazione polemica di un metodo che sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi alcun sistema, in una società come in un’uomo, se non fidandosi dell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha motivato l’esistenza; se non sottolineando l’incapacità di una società o di un’uomo a realizzare vittoriosamente la sua ragione di essere. Anche in modo ingenuo,  Di Vittorio vedeva nella società capitalistica italiana la ricchezza che poteva essere prodotta - e che non lo era - piuttosto che la povertà che esisteva. Ed era l’idea della ricchezza che lo entusiasmava. Per questo motivo, non poteva essere un fatalista, o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva disperatamente - da autodidatta - essere un’uomo del suo tempo: era entusiasta delle macchine, della televisione, e dei nuovi modelli di automobili. Rispettava come dei profeti gli scienziati e i medici. Voleva sempre essere partecipe. Temeva con angoscia, in quanto uomo e in quanto CGIL, di essere escluso; di non avere una parte, riconosciuta, nello sviluppo della società contemporanea.
Era d’altronde un uomo di un’altra epoca, ed aveva il fiato corto negli ultimi tempi. Il suo sforza diventava patetico, ma sempre magnifico ed imponente. La sua morte è veramente, per l’Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ populista e romantica del dopoguerra, e l’inizio di una nuova. E lui ha saputo essere l’uomo del passato e quello della transizione.
Ha realizato quello che c’era di nuovo nella storia, e con tutte le sue forze, che erano la forza di un toro, ha fatto tutto per capire e per esistere come uomo moderno.
Capisco, adesso che è morto, quanto l’amavo. Non c’è nessuno del suo calibro per sostituirlo, i migliori hanno una statura molto più modesta. [...]

DALL’INTERVISTA VIDEO A FRANCO GIRALDI, 1998 SULL’AUTUNNO CALDO
Sul secondo biennio rosso, 1968-69, c’è stata una lettura successiva, a mio parere molto spesso fuorviante, comunque riduttiva di quello che è suc-cesso. Questi due anni hanno cambiato a mio parere molte cose nelle regole di convivenza civile e nella stessa cultura di questo paese. Si ricorda l’“autunno caldo” il ‘69 come una grande battaglia salariale per esempio, quando il salario è stato un elemento di qualche importanza nelle rivendicazioni operaie ma certamente secondario rispetto ad alcuni obiettivi fondamentali che segnano in qualche modo la prima ribellione di massa nei confronti di un sistema abbrutente come era l’organizzazione taylorista del lavoro; cosi come, a mio giudizio, il ‘68 studentesco, con i suoi limiti, con le sue sbavature, alla fine con i suoi fallimenti, è stato innanzi tutto un grande movimento antiautoritario, una domanda di libertà, di riconquista di una cultura da parte di centinaia di migliaia di giovani che entravano nel mondo della scuola, non solo in Italia ma in tutto il mondo. La lotta dell’“autunno caldo” e i contratti del 1969 sono stati prima di tutto la conquista di alcuni diritti fondamentali di espressione, di partecipazione: è la conquista dell’assemblea nei luoghi di lavoro, è la conquista di un diritto all’informazione nei piazzali delle fabbriche con le bacheche in cui i sindacati e i lavoratori potevano informarsi, è la conquista del diritto alla parola durante l’ora della mensa usando gli impianti radiofonici dell’azienda, è l’abolizione dello spionaggio televisivo e fotografico nei cancelli delle fabbriche, è la conquista del diritto di inchiesta sulla salute e le condizioni psicofisiche dei lavoratori nelle lavorazioni più stressanti. …
E’ la conquista del diritto a contrattare i tempi, le cadenze della prestazione di lavoro, di contrattare gli organici, di farsi rappresentare nei luoghi di lavoro, nei reparti, nei gruppi di lavoro da delegati eletti su scheda bianca da tutti i lavoratori. Una grande conquista di libertà e di potere che ha introdotto dei vincoli ferrei, per la prima volta, a un dispotismo padronale che sembrava senza freni e senza limiti. Questo ha cambiato secondo me la storia anche ci¬vile del paese. Lo Statuto dei diritti dei lavoratori verrà approvato dal Parlamento italiano appena un anno dopo… Naturalmente la democrazia, la conquista di nuove libertà è, contrariamente a quanto sostengono molti ideologi o molti poeti, la cosa meno spontanea che ci sia. La cosa più spontanea in una società organizzata, come in una associazione, come in un sindacato, è la burocrazia non è la democrazia, la democrazia si deve riconquistare faticosamente ogni giorno, deve potersi riempire di nuovi contenuti se no rapidamente si sclerotizza, diventa il patrimonio di pochi. Così è successo anche, sia pure in fasi alterne, dopo le conquiste dell’“autunno caldo”, così è successo negli anni che intercorrono fra l’inizio degli anni ‘70 e la conclusione disastrosa di una battaglia di difesa contro i licenziamenti come quella della Fiat nel 1980.
Sì, l’esercizio della democrazia, ha bisogno di essere continuamente rialimentato, di nuovi motivi, di nuovi obiettivi che diano ragione dei diritti, delle libertà conquistate anche per fare fronte ai problemi sempre nuovi che la società e la realtà presenta; i consigli dei delegati erano stati eletti nell’“autunno caldo” e negli anni successivi con l’obiettivo di procedere a dei rinnovi frequenti degli eletti, con l’obiettivo di riverificare continuamente, attraverso assemblee di reparto e di gruppo, quali erano i problemi che dovevano essere affrontati e risolti; bene, dopo pochi anni i delegati hanno cominciato a essere sempre gli stessi, le elezioni non si sono più rifatte, e mentre cambiavano i problemi dell’organizzazione del lavoro, la conquista per esempio dei tabelloni nei quali venivano scritti gli obiettivi di produzione ma anche i tempi, le cadenze, ecc., è diventata una conquista abbandonata a se stessa, i tabelloni non furono più aggiornati, si allentò un controllo, e si allentò con ciò anche quell’ansia di democrazia nei confronti del sindacato stesso… Se non c’è la capacità di alimentarla di nuovi motivi, di attualizzarla continuamente, la tensione si abbassa, l’organizzazione si ripiega su una routine che diventa sempre più burocratica e si distacca poi dalla gente in carne ed ossa, dai loro problemi.

SULLA CGIL. DALLA CONFERENZA PROGRAMMATICA DI CHIANCIANO del 12-14 APRILE 1989 e del 12-14 GIUGNO 1994
“Un rinnovamento dei gruppi dirigenti della Cgil e del loro metodo di lavoro è possibile e necessario: lo avverto questo problema come il compito principale che mi incombe.... Ma non aspettami da me un rinnovamento degli uomini separato da un rinnovamento delle politiche, del programma, e della strategia della nostra organizzazione. E non aspettatemi da me il ruolo di un mediatore fra fazioni.
Sono e rimarrò, credo, fino alla mia morte, uno dei pochi o dei molti illusi che ritengono che il rinnovamento dei gruppi dirigenti cammina con la coerenza delle idee, con l’assunzione delle responsabilità, con il coraggio della proposta e del progetto. E ciò, proprio perché sono convinto che presto o tardi, con la forza delle idee e delle proposte anche le forze culturalmente minoritarie di oggi, se dimostrano coerenza e rigore, possono diventare maggioranza domani ed essere davvero il futuro della nostra organizzazione.
.... C’è bisogno, specialmente oggi, di una deontologia del sindacato che dia credibilità e certezze ai lavoratori e che lanci ai giovani che vogliono cimentarsi con questa prova il messaggio che lavorare per la Cgil e nella Cgil non è un mestiere come un altro, ma può essere, può diventare una ragione di vita”.

“Questo è il volto della Cgil. Questa Cgil che conosco bene e di cui lascio la direzione con un sentimento di infinita riconoscenza. E’ il volto di un sindacato di donne e di uomini che si interroga sempre sulle proprie scelte e anche sui propri errori, che cerca di apprendere dagli altri per trovare tutte le energie che gli consentano di decidere, di agire, ma anche di continuare a rinnovarsi, di dimostrare con i fatti, la sua capacità di cambiare e di aprirsi a tutte le esperienze vitali e a tutti i fenomeni di democrazia che covano ora e che covano sempre nel mondo dei lavoratori”.

DALLA “LECTIO DOCTORALIS”, QUANDO TRENTIN HA RICEVUTO LA LAUREA AD HONOREM DELL’UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI  VENEZIA, 12 SETTEMBRE 2002
Magnifico Rettore, Signore Preside della Facoltà di Economia e Commercio, signori membri del Consiglio di Facoltà,  Signore e Signori, cari amici, Voi potete comprendere la mia emozione, in questo momento, non solo per l’onore che mi fate, forse impropriamente, con questa laurea, ma per la scelta che avete compiuto di tenere questa riunione nell’aula che porta il nome di mio padre.
Sono stato sempre restio a parlare di lui pubblicamente, per il rispetto e la riconoscenza che gli debbo. E non cambierò oggi il mio atteggiamento. Voglio soltanto testimoniare che quel poco di valido e di utile che ho saputo produrre nel corso della mia lunga vita, lo debbo interamente al suo insegnamento e al suo esempio; alla sua radicale incapacità di separare l’etica della politica dalla propria morale quotidiana, pagando sempre di persona per i propri convincimenti.
Il tema di questo mio intervento riguarda il rapporto fra lavoro e conoscenza. L’ho scelto perché mi sembra che in questo straordinario intreccio che può portare il lavoro a divenire sempre più conoscenza e quindi capacità di scelta e, quindi, creatività e libertà, proprio perché si tratta soltanto di una potenzialità, di un esito possibile ma non certo, delle trasformazioni in atto nelle economie e nella società contemporanea, sta la più grande sfida che si presenta al mondo all’inizio di questo secolo.
E’ la sfida che può portare a sconfiggere le vecchie e nuove disuguaglianze, e le varie forme di miseria che dipendono soprattutto dall’esclusione di miliardi di persone da una comunità condivisa.