Nell'80 parlava della frammentazione, di Sandro Schmid

E’ come se Bruno Trentin fosse presente in mezzo a noi. Come nei suoi interventi più importanti, quando arriva sul palco davanti alla sede della CGIL lo accoglie un applauso interminabile di migliaia di persone vecchie e giovani. Poi, ascoltando le parole degli oratori, mi lascio andare. Seguo la voce dei ricordi, rivedo spezzoni di un film ricco di passioni ideali, di discussioni, di lotte, di entusiasmi alternati da delusioni. Con un’intera generazione di operai e una nuova leva di sindacalisti ho avuto il privilegio di vivere intensamente quel movimento a cavallo degli anni ’60 e ’70 che ha scosso il mondo. L’ultima grande utopia del ‘900 per cambiare la società e Bruno Trentin è stato un protagonista centrale di queste lotte.

Un leader carismatico, riconosciuto da milioni di tute blu. Un capo sindacale animato da un grande rigore intellettuale e morale. Era nemico di quello che definiva “pigrizia intellettuale” e ci invitava alla ricerca, allo studio delle trasformazioni sociali e alla competenza. Quando prendeva la parola, nella sala calava sempre un grande silenzio, tutti aspettavano “cosa avrebbe detto Bruno” perché la sua analisi e il suo progetto rivendicavano un forte cambiamento della politica sindacale e della sinistra.
Non concedeva mai nulla agli slogan e ai luoghi comuni sia del passato che delle varie forme dell’estremismo. Si confrontava con tutti nella convinzione che la sua proposta fosse in concreto “quella vincente” e la “più a sinistra possibile”. Aveva intuito, anche nel pieno delle lotte operaie, degli incombenti mutamenti globali dell’organizzazione del lavoro, della fine del fordismo e dell’avvento della rivoluzione informatica. La sfida epocale era nella “consapevolezza dei lavoratori del proprio ruolo”. “Da sfruttati a produttori”, come recita il titolo di uno dei suoi libri. “L’autorealizzazione umana e della libertà nel lavoro, nel solco della grande tradizione dei diritti individuali nata con la rivoluzione francese” che è il filo conduttore del libro “La città del lavoro”.
Da qui parte l’incontro con il movimento studentesco del ’68, l’Autunno caldo del ’69 e l’originale lunga evoluzione contrattuale aperta dai metalmeccanici. Trentin con Carniti e Benvenuto fondano la FLM unitaria e il sindacato dei Consigli. I Consigli dei delegati di reparto per rendere “consapevoli” i lavoratori dei processi produttivi, dell’organizzazione del lavoro, dei piani d’impresa. La “consapevolezza operaia” si trasforma in “potere operaio” di contrattazione per i diritti fondamentali di libertà sindacale, di assemblea, per la tutela della dignità individuale, della salute, dei ritmi di lavoro, della riduzione degli orari. E’ l’esperienza del confronto sui “piani d’impresa” per conoscere preventivamente e concertare investimenti e trasformazioni future dell’impresa stessa.
La richiesta del diritto di ogni lavoratore alle “150 ore di studio” è emblematica ed esprime bene l’idea di Trentin “della liberazione del lavoro”. Il potere consapevole dei lavoratori nei posti di lavoro è la condizione necessaria per un potere consapevole nella società e un conseguente progetto di società più libera, democratica e giusta. Il tutto si intreccia con i drammatici scontri di piazza, gli anni di piombo, il terrorismo rosso e nero, le stragi di Stato.
Già all’inizio degli anni ’80 Trentin aveva previsto il processo di frantumazione del lavoro e del precariato che oggi colpisce le giovani generazioni. Ha voluto con forza istituire un dipartimento per la politica del mercato del lavoro che ho avuto il privilegio di coordinare per diversi anni. Sono gli anni indimenticabili di lavoro comune con Trentin e di un’amicizia più profonda. Nonostante tutti gli sforzi, una svolta decisiva nella “politica della CGIL” riguardo le nuove condizioni di lavoro delle nuove generazioni, non c’è mai stata e oggi ne paghiamo ancora le conseguenze.
Per Trentin l’altra “passione” era la montagna. Sulla sua bara un mazzetto di stelle alpine e la corda che lo accompagnava nelle arrampicate. Il suo “rigore e la sua forza interiore” di rocciatore erano le stesse del sindacalista. Nel suo ufficio c’erano due foto: quella del suo maestro ideale Giuseppe di Vittorio e quella del suo compagno di sindacato e di roccia Guido Rossa. Ricordo la bellezza (e la fatica) di aver fatto con lui con corda e ramponi, la “direttissima invernale del Corno Grande sul Gran Sasso”. Non dimenticherò il sorriso del suo volto illuminato da occhi splendenti come il ghiaccio che ti penetrano l’anima.
Arriva il canto di Giovanna Marini “le temps des cerises” che evoca il sogno di una società egualitaria della lotta disperata della “Comune di Parigi”. Poi “We shall over come” la canzone pacifista e di liberazione degli sfruttati che Joan Baez ha cantato nel 1968 in tutte le piazze del mondo. Il testamento simbolico di Trentin si chiude sulle note di”Bella Ciao” introdotto dal canto delle mondine. Le lotte del lavoro si intrecciano profondamente con quelle della Resistenza. Per accompagnare la bara di legno chiaro di Trentin che se ne va, cantano tutti. Batto il ritmo con le mani, ma dalla mia gola non riesco a far uscire alcun suono.
Ciao e grazie, caro Bruno.